28 dicembre 2009

Alzheimer

Imprigionati nel silenzio, tra corridoi vuoti,
si spengono lentamente,
dimenticati dal mondo,
fantasmi di precedenti esistenze.

Ci sfiorano con gesti abituali,
ricordi di un lontano passato,
parole senza pensiero,
gemiti senza apparente dolore.

Anziani-bambini scivolano nell'oblio,
ci lasciano defilandosi nelle loro nebbie.

Li guardiamo pietrificati,
ingannando noi stessi per sopravvivere.

26 settembre 2009

Football

Battiti, avverto il mio cuore, mi manca il respiro.
Secondi, un altro battito, sudore sotto il casco protettivo.
Secondi, sfugge lo sguardo, vedo gli occhi dell'avversario di fronte a me, sento il suo affanno, anch'egli è in tensione.
Sta ripassando mentalmente lo schema ... forse è nel panico, forse non lo ricorda.
Rapido guardo il suo volto a quello del Quarterback in piedi dietro di lui.
Sento la tensione, i nervi si tendono, niente saliva, apro la bocca, respiro tra i denti.
Ansia.
Profumo di rose nel naso, strano avvertirlo ... forse è l'erba.
Rumore assordante, urla del pubblico. Il mio fiato non esce... ricordo i corn flakes e il bacon stamattina, ricordo mia moglie e dopo nello spogliatoio le ultime raccomandazioni dell'allenatore.
E' il momento, lo sento, urla, sta urlando; il Quarterbeck sta ripassando lo schema, chiama i comandi.
Solo un attimo, ancora solo un attimo.
Lo vedo, mi manca l'aria, non sento il braccio, il corpo mi pesa, le protezioni mi pesano.
Chiudo gli occhi, non penso, ripasso i movimenti: finta, scatto a sinistra e poi a destra, per liberarmi dall'avversario dinanzi. Riguardo il mio avversario, mi sta fissando - suda - cerca anche lui di capire cosa farò.
Ma sono deciso. Lo fisso a mia volta, dietro di lui è il mio obiettivo, il Quarterback, il suo capitano, che lui deve proteggere.
Il pubblico urla, rumoreggia, sale la tensione, non sento più nulla solo un ronzio e il mio ansimo. Devo lanciarmi di scatto - mi ripeto - nessuna esitazione, un balzo deciso... e spingere, spingere, spingere forte, con gli occhi chiusi, senza pensare.
Ho la gola secca, un attimo e...
Partiti!
Scatto, sento il contatto con lui che mi è davanti, faccio una finta, lo afferro, lo spingo, lo sbilancio, cade.
Sono smarcato ... ho un corridoio, ansima il mio respiro, ho il cuore in gola, sento intorno i colpi dei contrasti tra i miei compagni con gli avversari.
Ma ormai ce l'ho fatta, io solo sono oltre la linea avversaria.
Vedo il mio obiettivo, il loro Quarterback ... ed ha ancora con sé la palla. Mi lancio.
Aspetta! Fermo! Non lanciarla! Pensa ancora qualche secondo, studia la posizione dei tuoi, guardali ancora. Pensa! Pensa ancora ma trattienila, trattienila, trattieni la palla ... così che ti afferri.
Attendi, aspetta! Ancora un secondo, il tempo di un balzo ... per stenderti al suolo.
Ecco...
Sei mio!


21 settembre 2009

Egon Schiele (Tulln 1890 - Vienna 1918)



Scivolano rapidi i mie passi sui selciati imperiali
sfiorando le sfarzose carrozze dell'altrui vita
mentre, in fretta, mi nascondo alla vista
di quei neri calessi
che accrescono in me
solo i dubbi.

Zoccoli di bianchi destrieri
scalpitano sulla pietra
sottraendo lenti quei maestosi palazzi
a sguardi ancor più annoiati
di passeggeri indolenti.

Ed io
dal basso
lancio occhiate a cieli di un giallo intenso
a case arancioni dai verdi infissi
intarsiate
quasi protette
dalla bianca luce dei panni stesi
che ogni volta accecano il mio sguardo interiore
soffocandomi in un mondo di colori
che solo a me appartiene.

Danzano incessanti
incrociandosi sulla candida tela
i miei occhi assetati
di coglier riflessi color rubino
sul nudo del mio autoritratto sbiadito
lasciando però che la mia anima
resti celata sotto una patina
di grigio colore.

Così l'avido desiderio
di possedere altri corpi
stravolge l'immagine della modella che ho dinanzi
contorcendola in pose grottesche
quasi animali
per me sensuali.

Luce di follia
che travolgevi la mia mente
tu sola
mi accompagnasti
donandomi sollievo
nell' ultimo sonno
spengendoti con me
insieme al mio corpo malato.

Ritratti



Giullari di sale
roteano nella stanza
sfiorando i velluti.

Maschere ambigue
mi scivolano accanto
come in una macabra danza
mentre sfuggo agli sguardi morti
ritratti sulle pareti.

Istantanee di vita
pietrificate nel ricordo
emozioni vissute
da anime ormai lontane.

Silenti spettatori del vuoto
delle nostre quotidiane risa
sorridono a loro volta
aspettando pazienti
il nostro arrivo.

17 luglio 2009

Siachen



Nel nulla, sto morendo nel nulla, nel vuoto, nel silenzio di un oceano bianco di neve e ghiaccio.
Lentamente mi spengo.
Nessuno mi troverà fino a domani.
E domani sarò morto.

Se solo riuscissi a raggiungere Ranjan.
E' lì. Lo vedo, a solo una decina di metri; morto soffocato come gli altri dalla neve ... ma lui ha il radiotrasmettitore con sé.
Se solo ce la facessi a raggiungerlo, forse potrei chiamare il campo ... potrei chiedere aiuto.

Per Shiva! Non mi muovo, non ce la faccio, le forze mi mancano.
Sono bloccato da questa massa di neve che ci ha travolti tutti, all' improvviso, come un ciclone tropicale; in un attimo, ci ha presi e spazzati via dal sentiero, trascinandoci con sé.

Un boato e davanti a me ho visto sparire inghiottiti dal bianco il Tenente Maraji, il sergente Balram e il caporale Kedar, avvolti dalla valanga, portati chissà dove, giù verso valle... verso la morte.
Solo un fiato e anch'io mi sono sentito schiacciare, sollevare, premere contro il terreno e poi portare via, rotolando per attimi, forse secondi che parevano ore ... fino a perdere i riferimenti, a perder la coscienza del sopra e del sotto, in un involucro di morte che tutto avvolgeva, in un sudario di soffocante silenzio.
Nulla più ero, catturato da madre natura ... che, come me l'aveva donata, ora mi toglieva la vita.

Ancora qualche respiro, ancora riesco a pensare, ho coscienza di me qui, bloccato dal ghiaccio, seppur incapace di muovermi col corpo del tutto sommerso, imprigionato in questa lenta morte bianca.
So che solo pochi attimi di coscienza ancora mi attendono ... e neppure riesco a piangere.

Dal comando informeranno mio padre e mia madre che sono morto con onore per difendere l'India, seppur non abbia mai sparato un solo colpo in questo deserto bianco. A chi poi lo avrei potuto sparare. Mai una volta, nei sei mesi da quando sono arrivato, ho visto i pakistani, ma solo freddo, ghiaccio e tempeste di neve. Qui, a settemila metri di altezza, su questo ghiacciaio del Siachen conteso da anni tra India e Pakistan, un piccolo lembo di Himalaya dove l'unica cosa che accomuna noi e i pakistani è di essere tutti quassù, quando moriamo, molto più vicini agli Dei delle nostre famiglie lasciate nelle calde pianure di India e Pakistan, settemila metri più in basso.

O Shiva! Ho sonno, il mio corpo si sta lentamente spegnendo.
Accoglimi grande Shiva! E fammi reincarnare in un candido airone, così che abbandoni per sempre queste vette immobili dove manca il respiro e possa volare lontano, attraversare le pianure del Rajasthan e raggiungere infine il mio villaggio, la mia casa, i miei genitori e lì nidificare sugli alberi vicini per vederli ancora una volta.





Legenda:

Siachen: ghiacciaio posto alle pendici degli "ottomila" del Karakorum situato a quasi settemila metri di altitudine conteso tra India e Pakistan, di nessuna rilevanza strategica senza alcuna materia prima. Solo ghiaccio e freddo polare. Questo ghiacciaio, per il cui dominio si stanno spendendo enormi somme di denaro e mettendo in gioco le vite di migliaia di uomini costretti a vivere a -50 °C, rientra nel più generale gioco della grande guerra tra Pakistan ed India. Da ormai vent’anni in questo piccolo lembo di Himalaya soldati musulmani e hindu muoiono. Quasi mai per le pallottole che, data l’aria estremamente rarefatta, raramente raggiungono gli obiettivi prefissati, ma quasi sempre per ipotermie, mancanze di ossigeno o valanghe.

30 aprile 2009

Ricordi



Grigia bruma autunnale, radi alberi che si infittiscono e poi di colpo, di fronte a noi, formano un bosco, avvolto anch’esso nella nebbia che, lentamente, si solleva dal suolo in una terra germanica, perennemente impregnata di umidità.

Solo elmi e scudi sulla linea del mio orizzonte ed aliti di vapore frammisti al silenzio, quello assoluto, totale, quello dei pensieri sulla morte e della ferma determinazione, quello della ferrea disciplina e dei nostri valori ancestrali sul coraggio e sull’onore.
Una lunga linea di grigio acciaio e di punte acuminate che, asimmetriche, scompaiono in lontananza.
Profili indefiniti di decine di volti, sagome quasi irreali adesso, anche se da me ben conosciute.

L’attesa …… sempre la stessa come ogni volta, da molti anni.

E l’ansia che diviene palpabile, quasi visibile, come lo scudo di Massimo che copre il mio fianco destro ed il forte braccio di Varo, con l’alto pilum, cui il mio scudo offre riparo, alla mia sinistra.

Il nemico indefinito, informe è di fronte a noi, forse mille, forse solo cento passi; ne percepiamo la presenza, oltre alla sua stessa inquietudine che nasce dal vederci fermi, risoluti… orgogliosamente sicuri della nostra superiorità e che ancora lo frena nel suo desiderio selvaggio di dare battaglia.

Spalla contro spalla, gli uni vicini agli altri, avvertiamo la stessa tensione la stessa ansia che avvolge il cuore, ma siamo determinati, un’unica entità pronta allo scontro, gli occhi fissi dinanzi a noi su sagome indistinte che, forse frutto della nostra attesa, pervadono la nebbia insieme con il nostro immaginario, mentre il comandante Marsilio, immobile, appena fuori della linea formata dai nostri scudi, scruta il limitare della radura, da dove ciascuno di noi vedrà, a momenti, apparire il proprio destino.

Lucio e la IX coprono il nostro fianco destro, non li vediamo, attraverso questa nebbia e questa luce fioca, che fagocita tutto insieme al paesaggio, ma sappiamo che sono là, schierati su quattro linee e pervasi dalla nostra stessa inquietudine.

Come Valerio con la XIV “Virtus” a centoquaranta passi da noi verso est, più al centro della pianura e certo con le lance delle prime file già abbassate in attesa dell’urto.

Il momento delle scelte, il momento dei pensieri oscuri, il momento della raccomandazioni agli Dei, il momento delle certezze, il momento della nebbia della ragione, il momento in cui si fanno risuonare incessanti nella mente le parole del centurione Cornelio, unico ricordo dei molti mesi di addestramento, tante e tante lune orsono, ricordo di un tempo così lontano, che adesso fatichiamo a crederlo veramente vissuto.

L’attesa, terribile compagna che sola ci fa progredire tutti insieme nel nostro coraggio, l’attesa in un sentire comune che ci unisce e ci fonde quasi in un’unica entità, nella quale le nostre individualità scompaiono e nella quale ci nutriamo reciprocamente, l’uno della fermezza dell’altro.

L’attesa, un breve respiro trattenuto, un movimento comandato dal nostro cervello che non viene eseguito, un pensiero percepito nel nascere e immediatamente schiacciato e soffocato con rabbia, traendo forza dal compagno che ci sta al fianco.

Improvvisa la liberazione si materializza dinanzi a noi sotto sembianze di uomini urlanti, selvaggi privi di disciplina che combattono solo spinti dall’odio, che si credono cacciatori mentre moriranno da prede, come altri prima di loro.

La Legione all’unisono si irrigidisce, i muscoli si tendono, le gambe cercano stabilità nel terreno, gli scudi, con un unico movimento, leggermente si alzano per poi contemporaneamente unirsi, quasi spezzando, nell’incastro, le lance che abbassiamo, d’un tratto, protendendole dinanzi a noi.

Ancora cento passi e distinguiamo meglio i loro volti, ancora cinquanta passi e comprendiamo chi sarà il nostro avversario, colui che dovrà morire per permetterci di vivere.

Nella fermezza di chi ci sta al fianco, nel silenzio della sua voce, nella fiducia che in lui riponiamo adesso affidiamo, ciascuno, le nostre certezze e costruiamo l’ultimo nostro rifugio; mentre la mente si ottenebra nell’oscurità della ragione, soffocata da istinti primordiali di sopravvivenza e di rabbia.

Noi che siamo gli ambasciatori della civiltà, i figli di una cultura superiore …
i legionari.

Poi l’urto, terribile, violento, previsto ma che egualmente ci sospinge, ci travolge e ci fa barcollare, mentre vediamo le ferite, il sangue, le maschere di dolore ed accanto un compagno che cade, cui non possiamo prestare soccorso, perché tutti sappiamo che dobbiamo, a costo di qualsiasi sacrificio, tenere la linea.

Il nostro scudo che protegge il compagno e i colpi che sferriamo sono l’unica preoccupazione, unita alla fiducia che lo scudo di chi ci sta a fianco egualmente stia saldo.

Sangue, membra lacerate e colpi violenti inferti, da entrambe le parti, con una ferocia di cui le stesse belve mai si sognerebbero, noi, i portatori della pace, contro loro i barbari, stupidi difensori di usanze ancestrali e costumi primitivi.

Una pressione continua, crescente, che si unisce alle urla ed al rumore assordante del metallo, mentre lo scudo si fa sempre più pesante ed il riflesso ormai connaturato del parare ed infliggere i colpi prende il sopravvento su ogni mio pensiero, su ogni mia titubanza.

Un frastuono sul quale sento chiara solo la voce del comandante, che ci urla di restare immobili e tenere la posizione, mentre Massimo crolla a terra, col cranio fracassato, lasciandomi scoperto sul fianco, ma subito sostituito da un compagno che, dalla seconda linea, avanza d’un balzo, affiancando il suo scudo al mio, chiudendo il varco.

L’orda come un’onda si infrange sempre con maggior violenza, consapevole che, se respinta, verrebbe a sua volta travolta.

Poi il crollo fulmineo ed inatteso, alcuni compagni che cadono, la linea che sbanda, l’urto che, dapprima lineare, si frantuma in mille scontri individuali, mille rivoli di combattimenti corpo a corpo, dove solo l’esperienza ed il Fato comandano, dove, mentre, alla cieca, abbatto il nemico più vicino e recido, di netto, con la daga, l’avanbraccio di un altro barbaro, confido ancora di avere, alle spalle, un compagno, piuttosto che un avversario.

Così libero senza freni il mio furore, mentre colpisco con tutta la violenza e la rabbia di cui sono capace, lottando per la vita ed odo solo il mio urlo primordiale sovrastare il rumore dei colpi.

Ma la Legione è ancora viva e presente, anche se frantumata, ancora lotta disperata per non soccombere, seppur frazionata in mille individualità selvagge.

E a questo punto è il nemico a vacillare, quasi sorpreso da quella resistenza accanita, è l’orda a cercare un elemento che la tenga unita, ora che è riuscita a frazionare quell’avversario che pareva monolitico, è l’orda che sbanda, che indietreggia mentre ancora cerca un riferimento cui aggrapparsi, esaurito il compito che si era prefissa e nello stesso istante in cui la V Legione “Felix”, dalle retrovie ed a ranghi compatti, si immerge nella mischia.
Come una macchina da guerra ben addestrata, le coorti di rinforzo penetrano in file ordinate tra le nostre file residue, frantumano le difese dell’orda e risolvono gli ultimi scontri, lacerando le carni e calpestando corpi ormai mutilati con una progressione lenta ma inesorabile, che, come d’incanto, mi sottrae lo stesso avversario che avevo dinanzi, lasciandomi, da solo, di fronte al suo corpo ora dilaniato, al centro della pianura.

La vittoria grondante di sangue dirada le ultime nebbie che filtrano un sole malato.

Tra i corpi straziati dei nemici e di volti amici ed un fetore insopportabile di sudore adesso vedo la morte sollevarsi, sazia, dal campo di battaglia, recando via con sé molte speranze e molti sogni cui ancora la stessa sera precedente, intorno ai falò, ero stato fatto partecipe e che anch’io avevo condiviso.

Colgo il corpo inerte di Settimo e più in là quello mutilato di Claudio mentre Varo, l’armatura quasi lavata nel sangue, mi si avvicina, quasi a voler di nuovo ricomporre una linea che ormai non esiste più, poi entrambi rispondiamo al richiamo del centurione della VII coorte per raggrupparci, dopo che abbiamo scorto il nostro comandante a terra, privo di vita.

E lancio un ultimo sguardo, quasi di invidia, alla Legione “Felix” che sta inseguendo i barbari nel bosco, mentre da terra raccolgo l’aquila e le insegne della XIX “Civitae” …… la mia Legione.

Cordoba

La fioca luce del tramonto si attenuava lentamente fin quasi a scomparire dalle ultime colonne sul fondo dell’immensa sala, lasciando il posto all’oscurità che, a poco a poco, avvolgeva il salone.
Solo i riflessi vermigli delle torce sulle pareti, con i loro bagliori rossastri, rischiaravano a tratti la folla dei presenti.
Amhed, inginocchiato accanto al suo maestro, ripeteva, raccolto in preghiera, la Sura, mentre questi, seduto al suo fianco avvolto nella lunga veste da cerimonia, appariva distante, con lo sguardo assorto sotto la barba canuta.
La Moschea dalle cento colonne si stendeva a perdita d’occhio intorno a loro ed alle centinaia di fedeli lì riuniti per la preghiera della sera, come se Allah, sia Benedetto il Suo nome, avesse voluto ancora una volta radunarvi lì gli eletti, per avvolgerli in un unico grande abbraccio.
All’unisono, come membra animate di un unico essere, i fedeli si alzavano ritmicamente in piedi, per poi inginocchiarsi fino a toccare con la fronte le stuoie che coprivano il pavimento della Moschea in direzione del mihrab, il vero cuore di questa, rivolto in direzione della Sacra Roccia.
La nicchia, illuminata dal fuoco delle fiaccole, che ne accentuavano i riflessi rossastri del tramonto, risplendeva di una luce magica che ne esaltava le decorazioni ed i fregi, facendo apparire lì, palpabile, la presenza dell’Onnipotente.
Una luce mistica avvolgeva poi il Sacro Libro, quasi infondendo vita alle iscrizioni fregiate d’oro mentre, a pochi metri, su una pedana leggermente sopraelevata e coperta di morbidi cuscini, il Califfo Al Mansur era inginocchiato in preghiera, circondato dagli alti dignitari di palazzo.
Poi la voce del Gran Visir si alzò improvvisa, sopra le altre, annunziando la fine della preghiera ed invitando i fedeli ad invocare la protezione di Allah, sia sempre Benedetto il Suo nome, sul Califfo Al Mansur e sulle loro vite.
Amhed lo vide allora uscire, austero ed avvolto in vesti preziose intarsiate di gemme, preceduto dalle guardie di palazzo e dal seguito dei notabili.
Al Mansur, il Califfo Omayyade, ultimo discendente del Profeta e di quella dinastia che aveva regnato nella misteriosa Baghdad tra fasti e splendori inimmaginabili, scacciata solo dal tradimento e dal bagno di sangue che aveva posto sul trono, al loro posto, la stirpe degli Abbasidi.
E mentre la folla, lentamente, alzandosi dalle stuoie, abbandonava la Moschea, Amhed notò come una piccola folla di giovani si stesse raccogliendo attorno al suo maestro, ancora assorto in preghiera, desiderosi di ascoltare, attraverso questi, le parole e gli insegnamenti del grande scienziato greco Aristotele, il cui pensiero il suo maestro così a fondo aveva esplorato nell’età della giovinezza.
Averroè, nel silenzio della piccola folla raccoltaglisi attorno, alzò allora lo sguardo verso di lui, facendogli cenno di avvicinarsi per aiutarlo a rialzarsi e accompagnarlo verso il patio esterno.
E mentre lo sorreggeva camminando insieme attraverso la selva di colonne in pietra che li circondava, Amhed ne scorse ancora lo sguardo quasi spento, come perso in un mondo irreale in cui le argomentazioni del pensiero non erano ancora riuscite a trovare una risposta agli interrogativi dell’anima.

Il Duca d'Alba

Il bavero del mantello nascondeva parzialmente agli sguardi delle sentinelle di servizio a palazzo, il volto dell’uomo che, ogni sera, al crepuscolo, passeggiava nei giardini della residenza imperiale di Anversa, totalmente assorto nei suoi pensieri sotto lo sguardo vigile dei soldati ormai avvezzi a distinguere in quella sagoma leggermente curva, i tratti familiari del Duca.
Rapide sfuggenti occhiate, mosse più dal timore che dalla curiosità, sempre si alzavano al passaggio di quella figura ansiosa, mentre l’uomo, con passo deciso, percorreva svelto i vialetti per raggiungere i suoi appartamenti.
In quegli occhi cupi si potevano leggere ancora intatte, nonostante le violenze a cui avevano assistito, l’immutata determinazione nel portare a termine il proprio incarico con qualsiasi mezzo ed a costo di qualsiasi ferocia, sostenuta dalla completa fiducia che quel compito non gli fosse stato affidato dal sovrano unicamente per difendere gli interessi della corona spagnola in quelle terre, quanto piuttosto da una volontà superiore che si serviva di lui come strumento per riaffermare la vera fede estirpando i demoni dell’eresia.
Solo tale convinzione, unita alla totale devozione verso quella stirpe regale, che Dio stesso aveva chiamato a governare il mondo, gli permettevano di superare rimorsi ed incertezze, firmando ogni giorno decine di condanne a morte.
E mentre guardava le verdi colline del Bramante e ne assaporava i profumi acri, confusi nell’aria umida d’autunno, la sua mente correva lontano alle terre aride e desolate di Castiglia, agli altopiani dell’Aragona ed ai monti Cantabrici della Galizia, dove, nelle battute di caccia a cervi e daini, aveva lasciato per sempre la sua giovinezza.
E quei soldati, che lo avevano seguito nelle lunghe guerre d’Italia, mercenari senza famiglia né futuro, indifferenti ad ogni violenza e sopruso, erano ormai il solo legame che gli rimaneva con la sua vita di un tempo, quando anch’egli dava libero sfogo al suo vigore giovanile, guidando personalmente i suoi tercios in battaglia ai saccheggi delle città o nella devastazione di villaggi e campagne.
Sempre più spesso però, ogni notte, si sorprendeva a scrutare il cielo stellato ed a cercar di cogliere il rumore della sua anima inquieta, ed allora, per qualche minuto, si soffermava vicino alla piccola fontana tra gli alberi vicino al corpo di guardia, così immersa fra rami e siepi da sfuggire agli sguardi attenti delle sentinelle, là dove sembrava che anche il tempo si fermasse ai margini per non turbarvi il riposo che l’eternità lì vi si concedeva.
Poi in fretta, quasi impaurito dai suoi stessi pensieri, entrava nel cortile delle scuderie, saliva in fretta le ampie scalinate e percorreva con passo deciso i lunghi corridoi sbirciando appena, attraversando gli ampi saloni, le statue e le enormi tele che spesso disegnavano sfondi surreali alle spalle dei soldati che vigilavano sulla sua incolumità.
Sapeva che i suoi uomini lo temevano e non certo per le sue abilità guerriere, ormai precarie ed incerte, o per la morte che poteva ordinare e che sarebbe giunta immediata, quanto piuttosto perché terrorizzati al pensiero di poter un giorno cogliere sul suo volto una qualche traccia di dubbio, che, sfogo irrazionale della sua anima e della loro stessa coscienza, avrebbe tolto anche a loro, d’un lampo, le certezze sulle quali avevano giocato tutta la loro esistenza.
Richiudendosi la porta dello studio alle spalle lasciava poi dietro di sé ogni incertezza, e sulla soglia, fissando per qualche secondo ora lo scrittoio con i fogli lì in attesa, ora il suo letto, trasformava una banale scelta quotidiana in un bivio del destino per molti uomini e donne, che, inconsapevoli, in quella scelta di stanchezza si stavano giocando la possibilità di aprire gli occhi nuovamente su un nuovo giorno.
E come ogni sera, mentre sorseggiava un vino impregnato dell’odore di muffa tipico delle terre di Catalogna, dischiudeva i pesanti tendaggi così da poter osservare dall’alto i tetti e le strade della città addormentata, cercava con lo sguardo la ronda che lentamente percorreva la via che la conduceva al porto, per poi fissare a lungo il profilo familiare dei galeoni ancorati in rada, che l’indomani sarebbero salpati alla volta di Cadice.

La luce in fondo al sentiero

Dall’alto del colle Angalf, Signore di Endor, fissava gli squadroni dei suoi lancieri, le sue truppe scelte, allineate nella pianura.
Le nere armature bordate d’oro e le lunghe picche rivolte verso il cielo stellato risplendevano di sinistri bagliori argentei.
Un silenzio irreale era calato sulla valle, gli uomini attendevano gli ordini ed i capi squadrone aspettavano solo un cenno del Duca per muoversi mentre Angalf, li osservava in silenzio.
Quegli uomini erano, la sua guardia scelta, le truppe più temute dei Cavalieri Teutoni, con i quali da anni seminava il terrore e la morte lungo tutte le terre selvagge della Livonia Orientale.
Quegli uomini, con i quali aveva condiviso l’odore acre degli incendi, il sangue ed i volti terrorizzati delle loro vittime ed il comune disprezzo per quei popoli pagani.
Le schiere dei Cavalieri del Supremo Ordine Teutonico, ormai da settimane, stavano mettendo a ferro e fuoco le regioni orientali della Livonia, nell’ennesima Crociata contro gli infedeli.
Angalf amava, nonostante tutto, quegli uomini, ai quali avrebbe potuto chiedere qualsiasi sacrificio e che sapeva lo avrebbero seguito sino in Terra Santa, a liberare il Santo Sepolcro dai Saraceni, non certo perché mossi da una fede sincera nelle Scritture, bensì perché la guerra e la morte erano l’unico elemento che ormai li accomunava.
Ma Angalf era stanco di rincorrere il suo destino, di fingere di credere in un Dio che aveva ormai abbandonato negli occhi delle sue vittime o nel sangue ancora fumante, che zampillava dal collo di un contadino appena sgozzato.
La sua anima era persa, volata via d’un tratto come un corvo dal ramo di un albero nel centro di una radura, sul quale solo pochi attimi prima si era posato, esausto, dopo un lungo volo.
Era stanco di quella guerra, così come della sua stessa vita; entrambe non avevano per lui più alcuna attrattiva, continuare sarebbe stato solo un’ennesima bugia in una vita in cui la falsità era divenuta la compagna inseparabile della propria coscienza.
Il nitrito dei cavalli immobili nella valle, le nuvole di fiato che uscivano dalle narici dei suoi uomini e dalle loro cavalcature lo distolsero per un attimo da questi pensieri, mentre una stella ancora più luminosa parve balenare nel cielo stellato, attirando per un attimo la sua attenzione, verso un lontano spicchio di cielo stellato in alto, dinanzi a lui.
Il chiarore di una Luna quasi diafana illuminava la pianura, silenziosa spettatrice dei loro destini.
Un cavaliere improvvisamente si mosse da quelle schiere ordinate e, con un lento trotto, attraversò le prime file, raggiungendo le pendici della collinetta ed affiancandosi ad Angalf.
Angalf subito riconobbe nell’uomo il giovane Enkhart di Lusza, il suo luogotenente, così possente nella sua armatura di ferro, con quel suo sguardo fiero ed i lunghi capelli corvini, che, prepotenti, spuntavano da sotto l’elmo intarsiato con le insegne della casata degli Hostrasser.
“Quali sono i Tuoi ordini” gli disse Enkhart non appena gli fu giunto accanto.
“Ci ritiriamo” gli rispose Angalf senza neppure rivolgergli lo sguardo, ma continuando a fissare oltre le linee dei suoi uomini ed oltre le loro lance quelle sconfinate distese verdi, interrotte solo qua e là da paludi, qualche collina e punteggiate di radi boschetti di abeti.
“Torniamo al castello di Kaunas” - aggiunse Angalf spostando il suo sguardo su Enkhart e fissandolo a lungo negli occhi – “ sono stanco di questa scorreria e sono stanco di imporre con il sangue una fede che forse non ho mai avuto”.
“Ma Signore..” disse Enkhart “….proprio adesso che siamo a soli venti chilometri dalla città di Dunaburg, dove dobbiamo ricongiungerci con le truppe del Gran Maestro di Marienburg”.
“Vai Tu, se vuoi, prenditi quattro squadroni e lasciami i due della mia guardia personale. Lascerò a Ludwig e Freizer di decidere liberamente se seguirti con i loro uomini o se tornare ad Kaunas con me.”
“Gli uomini non mi seguirebbero senza di Te” – riprese Enkhart – “e neppure Ludwig e Fraizer lo farebbero”
“Allora dì loro che torniamo indietro” – aggiunse Angalf – spronando improvvisamente il cavallo verso Ovest giù dalla piccola collina in direzione di Kaunas, scomparendo in fretta agli sguardi dei suoi uomini.
La fredda brezza notturna quasi bruciava il volto e faceva lacrimare gli occhi, mentre in un galoppo sfrenato Angalf percorreva la pianura, attraverso stagni paludosi semi ghiacciati ed un terreno indurito dal gelo.
Percorse alcune miglia, fermò la sua corsa nei pressi di un boschetto e, voltatosi indietro, vide i suoi uomini che, in squadroni ordinati, lo seguivano al galoppo, riconoscendo in testa la sua guardia personale e dietro Enkhart con a fianco i mercenari di Ludwig e più staccato, in posizione di retroguardia, come suo compito, Fraizer e i suoi teutoni.
Angalf li attese per poi cavalcare alla testa della colonna, per il resto della notte, in un silenzio irreale, rotto solo dal rumore delle loro cavalcature sulla pianura, mentre quelle terre di frontiera mostravano, al loro passaggio, il loro volto arido e desolato.
Ai primi albeggi Angalf ordinò di arrestare la marcia e di far riposare gli uomini per alcune ore, assegnando la sorveglianza del bivacco ai lancieri della sua guardia personale per poi, stremato, coricarsi a fianco del proprio cavallo.
Risvegliatosi solo dopo poche ore di sonno, trascorse in un dormiveglia agitato, Angalf dette ordine di riprendere subito la marcia e, a tappe forzate, guidò i suoi uomini sino alle colline di Elmoran da cui, in lontananza, immerso nel verde, si poteva intravedere la doppia cinta muraria e le alte torri del castello di Kaunas, apparentemente baluardo della cristianità in quelle terre di frontiera, in realtà luogo di efferatezze e crudeltà indicibili e cupo nascondiglio della sua, oltre che di molte altre anime corrotte, dalle luci del mondo.
Mentre si avvicinava a quel regno delle tenebre, attraverso il sentiero che si snodava all’interno della fitta foresta che cingeva, quasi a separarlo dal resto del mondo, il castello, Angalf avvertì che la sua inquietudine, piuttosto che diminuire, aumentava man mano che si avvicinava alla sua dimora, divenendo quasi incontrollabile quando, dal sentiero, cominciava ad intravedere, attraverso la vegetazione, l’alto muro di cinta in pietra nera, con i posti di guardia illuminati dal fuoco dei bracieri accesi sugli spalti che, per suo espresso ordine, ardevano incessantemente giorno e notte, sinistro monito fiammeggiante per i viandanti ad evitare quei luoghi e spettrale anticipo di ciò che, nell’al di là, attendeva le anime dei suoi abitanti.
Un drappo con sopra la croce nera bordata d’oro in campo bianco, simbolo dell’Ordine Teutonico, sventolava dalla torre più alta, ma solo da sotto le mura, si sarebbe potuto distinguere, disegnata su quello stesso vessillo, l’immagine di un corvo dagli artigli sanguinanti, il sinistro emblema scelto da Angalf per se stesso e per i suoi uomini.
Il lungo drappello comparve d’improvviso ai margini dell’ampia radura che circondava il castello, cogliendo quasi di sorpresa i soldati di vedetta sugli spalti, che subito passarono la voce dell’arrivo del loro Signore, abbassando in fretta il ponte levatoio ed aprendo i due pesanti portali di ferro che, di seguito l’uno all’altro, serravano, sorretti da quattro robuste torri, l’entrata principale.
Angalf smontò in fretta di sella non appena entrato nel cortile più interno, dirigendosi a passi veloci verso il palazzo.
Salì in fretta le ripide scale che portavano ai suoi appartamenti, mentre i soldati di guardia si arrestavano inquieti al suo passaggio, interrogandosi se quel ritorno inaspettato dovesse presagire a nuovo sangue e nuovo terrore.
Percorse in fretta i lunghi corridoi e le ampie sale, ancora immerse nell’opaco chiarore dell’alba e rischiarate dalle fiamme delle fiaccole che ardevano lungo i corridoi del palazzo, giungendo infine dinanzi a quella porta, unica meta del suo disperato vagare di quella notte.
Quasi paralizzato, nonostante l’ansia che lo divorava, Angalf attese alcuni minuti prima di trovare il coraggio di spingere lentamente il battente e varcarne la soglia.
Entrato subito la vide, così bella e dolce come se la ricordava, in piedi accanto alla finestra, ancora intenta a cercarlo con lo sguardo giù nel cortile, fra i soldati che, appena arrivati, smontavano le cavalcature.
Era bellissima, i lunghi capelli biondi leggermente mossi, i lineamenti delicati, impreziositi dal colore azzurro degli occhi e da un sorriso celestiale che, quando sorrideva, le illuminava il volto.
Lei si voltò d’improvviso e Angalf, sorridendole, la fissò in silenzio, cercando di fermare quell’attimo di intimità tra loro per l’eternità, mentre lei, raggiante di gioia, attraversava di corsa la stanza per abbracciarlo.
Rimasero a lungo l’uno fra le braccia dell’altra lì in piedi, vicino alla porta, senza dire niente, ascoltando entrambi il loro respiro.
“Ti amo” sussurrò lei “ non credevo che saresti tornato così presto…..avevo così tanto bisogno di te…… che non sapevo più come fare……quando poco fa ho sentito le vedette annunciare il tuo arrivo non riuscivo a crederci… sono così felice” – aggiunse lei con un filo di voce mentre, delicatamente, gli appoggiava il volto sul torace.
Angalf le passò delicatamente le dita tra i capelli, accarezzandole il collo e le guance.
“Ti voglio bene – disse Lui continuando a stringerla forte a sé – … non ce la facevo più a stare lontano da te…sono così stanco di tutto questo sangue, di questo dolore…..avevo così tanto bisogno di vederti ”.
“…sei la mia unica ragione di vita – riprese Angalf, quasi con un sussurro - riesco a reggere a tutto questo solo perché guardando il cielo so che laggiù da qualche parte ci sei tu, con quel tuo sorriso così dolce, con le tue paure…. Sei l’unica parte buona rimasta in me … quello di buono che io avevo un tempo l’ho ormai perso.…senza di te tutto sarebbe solo tenebra.”
Rimasero a lungo abbracciati vicino al fuoco e Angalf pianse in silenzio tra le braccia di lei.
La ragazza, Shena Kassilivi, era la figlia di un notabile lituano che, catturata insieme con la famiglia, durante il saccheggio di Vilasius, venne risparmiata dal Gran Maestro dell’Ordine Teutonico dalle torture e dalle violenze, di cui furono vittime gli altri abitanti ed i suoi stessi familiari, perchè questi aveva pensato di far cosa gradita ad Angalf offrendogliela quale dono di guerra.
Angalf aveva accettato il dono, come era accaduto già molte altre volte, quando alcune ragazze giovani, di solito molto piacenti, gli venivano donate dal Gran Maestro per generosità o semplice complicità.
Erano ragazze con cui Angalf si divertiva una o due notti per poi assegnarle ai servizi domestici di palazzo e che, ai suoi occhi, dovevano ringraziare Dio Onnipotente di non subire la stessa sorte dei loro familiari ed anzi di essere educate nella vera fede.
Ma quando, la prima sera, gli fu condotta in camera la giovane, Angalf nel vederla, ne rimase stranamente turbato, sia per la straordinaria bellezza che per la dolcezza dei modi, così da decidere di affidarla, per alcuni giorni, alle cure di alcune serve ed alla sorveglianza di due lancieri fidati, mentre lui era impegnato in continue scorrerie e scontri di frontiera contro gli slavi; devastazioni sanguinose che delle crociate mantenevano solo il nome, forse per ingannare, come uno stupido alibi, le coscienze di coloro che perpetravano tali efferatezze.
Poi un giorno, nel cortile, al rientro dall’ennesima carneficina, aveva incrociato di sfuggita lo sguardo di Shena mentre, con ancora l’armatura sporca di sangue, smontava da cavallo ed inspiegabilmente si era sentito come nudo ed aveva desiderato solo sottrarsi in fretta a quegli occhi.
Poi due notti dopo, preso da una strana inquietudine, aveva vinto gli indugi e si era recato nella stanza dove dormiva la ragazza trovandola vicino al camino, ancora sveglia, che fissava le braci ardenti.
Avvicinatosi, quasi impaurito, l’aveva vista sorridergli e così era rimasto con lei l’intera notte, così come la notte seguente e quella ancora successiva, meravigliato di come la giovane, pur temendolo, gli dimostrasse il suo affetto, come un giovane cerbiatto indifeso ormai in balia del proprio carnefice, nel quale deve comunque riporre la propria fiducia, affidandogli la propria vita, forse per un senso di speranza, ancora intatto, nei confronti del mondo che lo circonda.
Ed a poco a poco la giovane era diventato questo per lui, l’ultimo barlume di bontà in un mondo di tenebra, un essere indifeso da proteggere dall’odio e dalla crudeltà che li circondava entrambi.
Così d’improvviso si erano resi conto di essersi innamorati, ed ogni notte, chiusi nel loro piccolo mondo, trovavano negli occhi l’uno dell’altra la fuga all’oscurità che li avvolgeva.
Da allora Angalf pur continuando a guidare i suoi uomini in battaglia e ad obbedire fedelmente agli ordini del Gran Maestro, cercava di limitare le efferatezze, frenando, quando poteva, gli eccessi di crudeltà dei propri soldati.
E questi avevano interpretato questo nuovo atteggiamento come frutto piuttosto di quella stanchezza, figlia delle guerre che non trovano mai una fine, che non di un cambiamento, invero per loro inconcepibile, dell’animo del loro Duca.
Nessuno infatti conosceva, né poteva immaginare la verità del sentimento che era nato in Angalf e che lo legava alla giovane lituana.
Tutti, anche gli uomini più vicini al Duca, pensavano infatti che l’assidua frequentazione della giovane da parte di Angalf fosse dovuta più ad un capriccio passeggero, come già altre volte in passato era accaduto, che non ad un vero mutamento interiore.
Ma stavolta Angalf aveva trovato nella ragazza qualcosa a cui non avrebbe rinunciato neppure per tutti i tesori accumulati dall’Ordine a Konisberg, in lei aveva trovato finalmente la pace della sua anima.

29 aprile 2009

Sonata

Gradini, ancora gradini, i “suoi” gradini. Lentamente saliva quelle scale che conosceva fin da piccola; lì viveva con la sua famiglia dalla nascita e lì sapeva che avrebbe vissuto per il resto della sua vita perché quel palazzo, chiamato Casa Pasqualati, era la sua casa.

Arrivata al quarto piano si fermò davanti alla porta e picchiò forte sul battente. Colpi forti, violenti e ripetuti, a sovrastare la melodia che aveva sentito fin dal primo piano mentre saliva e che adesso, lì sul pianerottolo, si avvertiva distintamente provenire dall’interno dell’appartamento.

Il Maestro come al solito non rispondeva; come accadeva tutte le volte che sia la cameriera che il suo segretario non c’erano. Brigitte la cameriera le aveva detto mezz’ora prima che sarebbe andata al mercato rionale, mentre il segretario l’aveva visto incamminarsi di buon mattino verso l’Hofburg dove si recava quasi ogni giorno.

Che strano uomo il Maestro - pensò tra sé mentre nuovamente picchiava con forza il battente contro la porta - certo assai bravo, ma alle volte così scontroso ed assente; forse a causa della sordità.

“Maestro, la carrozza è arrivata” annunciò urlando a gran voce attraverso la porta e continuando a percuoterla.

Dall’interno la musica si interruppe d’un tratto, sostituita da un improvviso silenzio e poi da un fruscio lontano quasi impercettibile per chiunque, ma non per i suoi orecchi abituati a cogliere ogni minimo rumore, soprattutto se proveniva dall’interno del palazzo.

Rimase lì ferma sul pianerottolo in attesa, fissando la porta ancora chiusa; con l’orecchio attento a cogliere ogni più minimo rumore che provenisse dall’interno. In fin dei conti ascoltare facendo finta di nulla faceva parte del suo lavoro di portierato; ascoltare, osservare ed annotare mentalmente ogni movimento di tutti, di chi entrava, di chi usciva e ricordarsi anche le visite che ognuno riceveva, per essere sempre informata ed anche, alla bisogna, per informare chi di dovere.
E quest’uomo così celebre venendo ad abitare lì aveva alterato la vita di tutto il palazzo, aveva aumentato il via vai. Certo un via vai di persone importanti, ma quanto lavoro in più era arrivato per lei. Adesso, quasi ogni giorno, doveva pulire il cortile antistante, lavare l’androne, spolverare il portone d’accesso e lucidarlo, mentre prima - almeno da quanto le aveva sempre detto sua madre – queste incombenze si rendevano necessarie, al massimo, ogni due o tre settimane. Insomma, da quando il Maestro era venuto ad abitare lì, oltre sei anni prima, tutto il lavoro era aumentato. Poi, come se non bastasse tutti, ma proprio tutti, dai vicini sino alle cameriere e perfino i vetturini o anche semplici passanti, la interpellavano volendo sapere del grande compositore, cosa faceva, chi incontrava, cosa mangiava, come si vestiva, se suonava sino a tarda notte … una vera scocciatura; non era mai lasciata un minuto in pace nella sua guardiola. Certo molti ospiti del Maestro - soprattutto le Signore - le lasciavano mance generose quando lei si occupava di cercargli le carrozze in particolare a tarda sera, ma onestamente ne avrebbe fatto anche a meno, perché per ogni carrozza che arrivava e partiva c’era sempre più sporcizia da togliere nel cortile ed anche dentro l’androne; soprattutto quella assai puzzolente lasciata dai cavalli. E poi, come se non bastasse, d’estate doveva tenere ben umido il selciato antistante l’entrata del palazzo e d’inverno spazzare la neve non solo dinanzi al portone – come gli aveva insegnato sua madre – ma su tutto il piazzale là dove sostavano le carrozze a doppio tiro in attesa degli ospiti del Maestro, arrivando a pulire fin quasi davanti all’entrata del palazzo accanto; perché il vecchio Gerd - che lì faceva il portiere - non ne voleva proprio sapere di andare a pulire oltre l’androne antistante la sua guardiola. Toccava quindi a lei curare che tutto fosse in ordine. Ne andava del buon nome del palazzo e soprattutto di lei e della sua famiglia.

La porta che si apriva lentamente la ridestò da quei pensieri e – come sempre – sfoggiò il suo miglior sorriso di circostanza mentre il Maestro apparve sulla soglia dell’appartamento con lo sguardo un po’ assente.

“La carrozza è arrivata ed è davanti al portone Maestro, sono venuta ad informarla” disse scandendo bene le parole ed a voce alta.

Lui annuì. Aveva capito, pensò lei tra sé.

“Quando vuole può scendere. Ha bisogno di qualcosa?” gli chiese, sapendo che non avrebbe ricevuto, come sempre, alcuna risposta.

Lui, abbozzando un mezzo sorriso, annuì. Almeno aveva compreso si disse lei.

Sul fondo dell’appartamento dietro le spalle del Maestro intravide il salotto ed il pianoforte a coda con gli spartiti sparsi qua e là per la stanza. Una confusione che lei non poteva tollerare in casa sua, ma d'altronde sapeva che i compositori erano tutti, senza eccezione, disordinati. Glielo aveva riferito anche la sua amica Gertrude che frequentava lo stesso fornaio vicino al Naschmarkt dove andava la portiera di quel tal Schubert.

Salutò con garbo il Maestro e si girò per tornare in fretta giù, quando d’improvviso sentì la voce di lui che la interpellava: “Mi scusi signorina…”
“Si” rispose guardandolo anche un po’ stupita, perché raramente le aveva rivolto la parola a causa della sordità che lo rendeva schivo ed introverso.
“Posso chiederle il suo nome?” le disse.
“Elisa, Signor Beethoven, Elisa Steiner … per servirla” - rispose - accennando un breve inchino.
“La ringrazio molto... Elisa … E’ proprio un bel nome – mormorò tra sé il Maestro – delicato e soprattutto musicale … Sì! E’ perfetto.”

“La ringrazio - continuò lui - dica al cocchiere in strada che arrivo subito. Adesso ho davvero finito.”
“Sa talvolta - riprese - un nome è quanto di più difficile ci sia da trovare.”
Ed in fretta si girò e rientrò nell’appartamento lasciando la porta aperta.

Lei lo vide che raggiungeva il pianoforte ed annotava qualcosa, un breve appunto, sullo spartito.

“Che tipo!” mormorò tra sé mentre scendeva le scale “sono più di sei anni che vive qui e solo ora chiede il mio nome.”

Uscita dal portone disse al cocchiere che il Maestro sarebbe arrivato subito e quindi si mise a spazzare l’androne con l’abituale misurata lentezza, simile ad un animale che delimita e controlla il proprio territorio.

Poco dopo lui arrivò, attraversò in fretta l’androne e senza nemmeno degnarla di un saluto salì sulla carrozza che partì subito in direzione dell’Hofburg.
Sotto braccio notò che aveva con sé una cartellina da cui sporgevano alcuni spartiti, quasi certamente quelli che aveva notato poco prima dentro l’appartamento.
Quei fogli bianchi da cui certo uscivano, a volte, melodie molto belle e che in molti suscitavano grandissima ammirazione, ma che a lei non erano mai interessate molto.
Quella musica le sembrava infatti troppo raffinata; era il tipo di musica nella quale si dilettavano i ricchi, sua Maestà e quasi l’intera aristocrazia perché non avevano altro da fare - pensava - mentre a lei non avrebbe mai dato da vivere.

Little killer



Ho sempre pensato che per parlare di me dovessi essere interrogato.
Senza una domanda non ho mai sentito il desiderio di farlo, però la dottoressa ha insistito, dicendomi che mi sarei sentito meglio, ma io sto già bene.

Pensavo solo a sparare. Questo mi avevano insegnato a fare e questo facevo, anche bene. Gli altri non avevano un volto, se per volto – come mi ha spiegato la dottoressa - si intende un viso cui attribuiamo un’espressione e dei sentimenti simili ai nostri.
Quello che avevano era solo una faccia su un corpo animato, un’immagine che tante volte quando mi si presentava dinanzi nella mia mente provocava come prima reazione quella di premere il grilletto; sapete, l’Ak47 – perché così si chiama, me lo ha detto il Sergente - è facile da usare basta solo sfiorarlo e lui centra quasi da solo il bersaglio, è sufficiente puntarlo dinanzi a sé.
A dire il vero il Sergente la prima volta che lo usai mi schiaffeggiò - come faceva mia madre - dicendomi che lo tenevo male, storto, troppo verso sinistra.
Aveva ragione, infatti quel maledetto vecchio che cercava di scappare non lo avevo ucciso subito al primo colpo. Avevo sparato sì, ma la raffica mi era sfuggita verso sinistra e quel vecchio, pur colpito alla schiena, continuava ad allontanarsi barcollando sulle gambe ed io avevo già sprecato quasi mezzo caricatore. Mi ricordo solo che dovetti rincorrerlo fin quasi al limitare della foresta per finirlo con una raffica alla testa ed il fucile mi pesava così tanto, mentre dietro il Sergente continuava ad urlare e sentivo anche gli altri che mi prendevano in giro ridendo, chiamandomi “cucciolo di antilope”; ma erano più bravi solo perché erano più grandi di me.
Imparai presto però, o sì che imparai. Solo tre settimane dopo quando ce ne andammo dal villaggio di Bisango ormai mi rispettavano.
Ero stato bravo. Mi ero proprio piaciuto; due, ben due insieme con una stessa raffica ed uno di loro aveva anche in mano un macete.
Dopo il villaggio di Bisango anche il Sergente era contento di me, mi chiamava pure “little killer” ma non perché avevo colpito quei due ma perché un’altra volta in un altro villaggio, mentre stavamo per andarcene, avevo scovato quella donna minuta ed il suo bambino nascosti in una buca usata per i bisogni sotto il pavimento della capanna. Era uno spazio angusto cui si poteva accedere solo passando da fuori e strisciando sotto la capanna. Gli altri non c’erano entrati, non volevano sporcarsi. Io invece ci passavo e non avevo paura di sporcarmi ed avevo capito subito che qualcuno avrebbe potuto rifugiarsi lì sotto; anche nel mio villaggio quando giocavo con Nascua mi nascondevo spesso sotto la capanna vicino al letame perché sapevo che, a causa della puzza, nessuno veniva mai a cercarmi lì ed io non avevo svelato a nessuno questo mio nascondiglio segreto. E così li avevo trovati entrambi.

Ero orgoglioso del mio Ak47.
Quando quei bianchi me lo presero piansi, ma io e gli altri due eravamo rimasti soli.
Eravamo inseguiti ed il Sergente era andato troppo avanti con gli altri e noi tre non riuscivamo a tenere il passo, le armi pesavano troppo e nella foresta si impigliavano dappertutto; ma non potevamo lasciarle, il Sergente ci avrebbe picchiato come faceva sempre e deriso davanti a tutti.
Quando calò la notte ci fermammo. Eravamo stanchi. Ialud cominciò a piangere in silenzio, come faceva tutte le notti perché aveva paura del buio, io invece non lo temevo; mi addormentavo masticando le erbe che ci dava il Sergente e facevo sempre sogni strani che non ricordavo mai ed al mattino mi svegliavo sempre tutto sudato.

Quando ci svegliammo capì che quelli che ci inseguivano erano passati oltre. Allora dissi agli altri che forse avremmo dovuto tornare verso il sentiero, così il Sergente ci avrebbe trovato; perché certo sarebbe tornato indietro a cercarci.
Nessuno di noi sapeva in quale altro posto andare.
Io non ricordavo neanche il volto di mia madre. L’ultima volta che l’avevo vista stava andando al pozzo portando con sé mia sorella Musiac e mi disse di aspettarla lì davanti alla capanna e di non muovermi. Io non mi sono più mosso, ma lei non è più tornata. Sono invece arrivati quegli uomini al villaggio e mi ricordo solo che piangevo e la faccia del Sergente che mi afferrava per un braccio e mi sollevava, mentre sentivo colpi e urli dovunque ed avevo tanta paura.

Io e gli altri camminammo un altro giorno nella foresta, ma non incontrammo il Sergente. Arrivammo invece vicino a una strada dove c’era tanta gente – una fila interminabile – tutti che camminavano portando qualcosa con sé.

Avevamo tanta fame e tremavamo tutti, senza il Sergente nessuno di noi aveva le erbe che lui ci dava, che quando masticavamo ci facevano rilassare e non sentire la fame.

Quei bianchi, due uomini e una donna, apparvero come dal nulla; scesero da una jeep e si avvicinarono a noi. Io e gli altri rimanemmo come imbambolati a guardarli, non avevamo mai visto una pelle così chiara. Non erano armati. Ci dettero del pane.
Gli altri lasciarono subito cadere a terra le armi; anch’io per poter mangiare lasciai andare il mio Ak47 e quella donna bianca lo prese subito. Io l’avrei rivoluto indietro e nonostante tremassi tutto la pregai, le urlai di rendermelo e che se non lo avesse fatto il Sergente, come altre volte era accaduto, mi avrebbe picchiato perché lo avevo lasciato in mano di altri, ma lei, come mia madre che mi tolse per sempre il bastone con cui giocavo perché avevo colpito mia sorella Musiac, non me lo restituì e anzi lo mise sul tetto della jeep dove non arrivavo anche perché ero troppo debole per arrampicarmi e allora … mi misi a piangere.

Lisbona

I passi sempre più veloci ed il respiro affannoso risuonavano nel vicolo, mentre l’ombra scivolava furtiva, rasente i muri, passando da una zona oscura all’altra e sfuggendo alla fievole luce delle poche lanterne.
L’uomo, voltandosi continuamente indietro, fissava ansioso l’entrata del vicolo per poi fermarsi improvvisamente in un androne, in assoluto silenzio, così da poter percepire un eventuale rumore di passi diversi dai suoi.
La paura e l’ansia lo avevano aggredito subito, fin all’uscita dalla locanda, dopo l’incontro con l’emissario del Duca de Andrade.
Era stato scoperto; ed il Conte di Guimaraes in persona aveva ordinato ai suoi uomini di eliminarlo quella notte stessa, così l’indomani la sua testa sarebbe stata presentata al re e poi da questi allo stesso Duca de Andrade, ambasciatore del re di Spagna a Lisbona, con le proteste ufficiali per l’ennesimo atto di spionaggio perpetrato a Corte da Filippo II.
Il gioco delle parti tra i regnanti richiedeva infatti queste messinscene teatrali, sorrisi e bonaria ironia nei rapporti ufficiali con i rispettivi ambasciatori, ai quali facevano da contraltare crudeli e sanguinarie ritorsioni, in un gioco delle parti degno di due primedonne bizzose, se non fosse stato tutto svolto sulla pelle dei propri cortigiani.
Altre volte aveva assistito a questi grotteschi spettacoli, che invero stimolavano e solleticavano le perverse fantasie della nobiltà presente a Corte, ma adesso, che la sua stessa vita era in gioco, ne provava tutto il terrore che prima aveva scorto solo nei volti di altri.
Da alcuni mesi anche lui passava informazioni alla Corte di Filippo II, e tramite il Duca de Andrade inviava all’El Escorial informazioni riservate sui convogli in partenza per le Indie, sulla consistenza delle guarnigioni delle piazzeforti portoghesi poste in Algarve e lungo la frontiera con l’Andalusia, e persino sulla dislocazione delle batterie di cannoni ubicate, sulle due rive del Tago, a difesa della stessa Lisbona.
Tutto era cominciato quasi per gioco, allorchè circa un anno prima, durante una festa a Corte, era stato avvicinato da una delle figlie del Duca de Andrade, che dopo alcune settimane di frequentazione diurna e notturna, gli aveva esplicitamente chiesto di passarle quelle informazioni in cambio della sua condiscendenza e di non poca moneta sonante.
Erano quelli i tempi in cui il Re di Spagna era giunto nella determinazione di annettersi a qualsiasi costo il Regno del Portogallo e tutti i suoi possedimenti d’oltremare in Asia e nelle Americhe, così da poter poi rivolgere ogni sua attenzione all’Inghilterra e alle Province Unite ribelli; e per far questo era disposto a ricorrere ad ogni mezzo, per raccogliere tutte quelle informazioni vitali, sui punti deboli del Regno di Sua Maestà Don Sebastiao di Portogallo.
E così lui, Luis de Angel Riberio, secondogenito del Conte di Cascais, fino ad allora annoiato e sfaccendato giovane rampollo di quella nobiltà melliflua e corrotta, aveva deciso di entrare nel gioco, non certo per i soldi o per le grazie della bella Beatriz de Andrade, ma piuttosto per dimostrare a se stesso ed a suo padre che anche lui aveva le capacità di intessere intrighi e di sfuggire alle noiose consuetudini di Corte.
Un rumore in fondo alla strada lo riportò d’improvviso alla realtà della fuga.
Tacque, cercando di afferrare attraverso il silenzio e l’oscurità qualche indicazione che lo aiutasse a capire se era seguito o addirittura già scoperto.
Delle voci, appena percettibili si avvertivano nel vicolo, e subito dopo gli sembrò di vedere delle ombre, come sagome indistinte, nella zona avvolta nell’oscurità da cui era passato pochi istanti prima.
Erano certamente i sicari del Duca de Guimaraes che venivano a guadagnarsi la ricompensa promessagli dal loro Signore.
Era in trappola, e non aveva alcun modo di sfuggirgli per raggiungere il battello, messogli a disposizione dallo stesso Duca de Andrade ed ancorato poco distante dalla Praça do Comércio, dove, poi, nascosto tra le balle di tessuto e le stoffe grezze dirette a Valencia, sarebbe riuscito a sfuggire in Spagna.
Stringendo con forza il calcio della pistola, che mai prima di allora aveva usato, la estrasse dalla fodera del mantello, trattenendo il respiro, pronto a sparare nell’ombra alla sua stessa paura.
Una sagoma indistinta d’improvviso scivolò fuori dall’oscurità e si avvicinò silenziosamente, con passi decisi, nella direzione del suo nascondiglio.
Evidentemente, pensò Luis, il sicario non lo aveva visto e pensando che avesse già lasciato il vicolo si affrettava verso l’altra uscita posta in direzione dell’Alfama, per inseguirlo.
Il profilo dell’uomo diveniva sempre più nitido, così come ben visibile era ora il lungo coltello che questi portava in mano.
Il colpo risuonò sordo ed improvviso, squarciando con una fiammata violacea le tenebre.
Luis vide l’uomo accasciarsi senza un grido, mentre già correva verso l’uscita del vicolo, sperando che gli altri sicari non fossero nelle vicinanze.
Corse a perdifiato lungo la Rua de S. Tiago, senza mai voltarsi, mentre in lontananza sentiva voci concitate, urla e rumori di passi.
Di lì a poco sarebbe giunto nella Praça do Comércio e avrebbe raggiunto la spalletta del molo e l’imbarcadero, nel punto esatto dove l’emissario del Duca gli aveva detto che una barca sarebbe stato ad attenderlo, per condurlo a bordo del battello ancorato in rada.
Il colpo lo raggiunse alla schiena quando era quasi all’angolo con la piazza, sentì le gambe mancargli e rotolò a terra, mentre un dolore improvviso lo coglieva alle spalle.
Girandosi vide sopraggiungere due soldati della milizia, uno dei quali teneva ancora in mano l’archibugio che ancora fumava per il colpo appena esploso e capì che forse questi avevano creduto di sparare al responsabile di un omicidio appena commesso nel malfamato quartiere dell’Alfama e non ad un nobile, figlio di un grande del Regno, quale lui era.
Morì sorridendo, pensando all’ilarità che in seguito avrebbe sollevato a Corte aver visto risaltare dal piatto, con sopra la sua testa mozzata, piuttosto che i riccioli corvini, i suoi orecchi a sventola, tratto ereditario ed indelebile di tutti i figli maschi della sua casata.

28 aprile 2009

Videogame



Il tonfo sordo della sacca sul pavimento distolse definitivamente la sua attenzione dalle cosce della ragazza bionda che rideva parlando al tipo atletico appoggiato vicino alla porta di ingresso dell'aula di fisica e dai sorrisetti ammiccanti che i due si scambiavano e che non facevano che aumentare la sua rabbia.
Dopo averla appoggiata al suolo pensò che era stata una bella fatica portarla attraverso tutto il Campus fin lì, ma ogni macchina doveva essere lasciata nei parcheggi all'entrata e non si poteva fare eccezioni, neanche per lui e neppure in un giorno speciale come questo.
Su per le scale la cinghia quasi gli aveva segato il palmo della mano da quanto era pesante, così che per un attimo era stato dell'idea di aprirla lì ... e al diavolo tutto quanto. Ma sarebbe stato goffo e poco divertente e poi non doveva andare così.

Inginocchiatosi tirò lentamente la cerniera della sacca e ne ispezionò il contenuto, anche se l'aveva già fatto una decina di volte da ieri sera, sapendo bene cosa vi avrebbe trovato.

I due piccoli fucili mitragliatori uzi calibro 9 risplendevano sotto le luci al neon del corridoio affascinandolo, come quando due mesi prima li aveva presi in mano per la prima volta togliendoli dalla scatola portatagli a domicilio dal postino. La Beretta calibro 9 invece l'aveva già infilata nella cintura dei jeans e ne sentiva sulla pelle il freddo della canna, ma da lei non si separava più da tempo, era ormai come una seconda pelle.
Accanto ai due fucili mitragliatori uzi vide le quindici scatole di caricatori, il nastro isolante e le venti bombe a mano, queste ultime erano delle sfere nere così rotonde, liscie, regolari, come fossero state gli addobbi scelti dal Diavolo per il proprio albero di Natale.
Si tranquillizzò perché tutto era al suo posto - come immaginava - e richiuse la sacca.

Alzati gli occhi, guardò fuori sul viale attraverso la finestra accanto a lui e per un attimo seguì con lo sguardo una foglia staccarsi dal ramo di una quercia, volteggiare sempre più lentamente nell' aria, come se questa stesse scegliendo con cura dove terminare la sua corsa, per poi posarsi delicatamente ma con estrema grazia al suolo sul marciapiede sottostante, venendo però quasi subito calpestata da due studenti che correvano in fretta per raggiungere un altro padiglione del Campus.
Quegli stronzi non stanno mai attenti a dove mettono i piedi, pensò.

“Ezril!” si sentì chiamare d'improvviso alle sue spalle. Voltandosi incrociò lo sguardo di Elisabeth, la capoclasse, che stava venendo a passi decisi verso di lui con la sua minigonna ed il suo golfino attillato seguita da Bryan, il suo ragazzo, con il suo solito sorriso ebete di chi si sente superiore a tutti solo perché gioca da anni nella squadra di football della scuola.
"Anche oggi non sei venuto a lezione" gli disse con una smorfia Elisabeth fissandolo "il Prof. Whilson ha chiesto di te e ci ha detto di dirti che con questa assenza non puoi più mancare, altrimenti non ti ammetterà neppure all'esame". "Ora che fai ?” continuò “Non vieni neppure alla lezione della Kirloch in aula di chimica?".

Non gli rispose, in silenzio distolse lo sguardo e, sollevata di nuovo la sacca, si allontanò dirigendosi rapido verso la biblioteca in fondo del corridoio, lasciando lì Elisabeth ed il suo ragazzo per un attimo perplessi da quell'atteggiamento, anche perché erano curiosi di sapere come mai quel tipo timido e taciturno, ma apparentemente intelligente, da più di un mese non si fosse più visto al Campus.

Certo che ci vengo in aula di chimica a trovarvi - si disse fra sé Ezril mentre si allontanava - e vedrete poi come si noterà la mia presenza, ma non adesso. Anche voi tra poco avrete finito di dirmi cosa devo o non devo fare.

Percorrendo il corridoio ignorò anche Henry Johansonn - quel biondo “surfista” del cazzo pensò - e il suo amico Michael che anche stavolta, vedendolo, lo apostrofarono ad alta voce prendendolo in giro per il suo abbigliamento, come facevano sempre, anche per farsi notare dagli altri. Ma anche ad essi non prestò attenzione; tanto sapeva che, di lì a poco, li avrebbe incontrati di nuovo giù in sala mensa in compagnia dei loro amici.

L' appuntamento anche con loro era solo rimandato ... chissà - si chiese sorridendo tra sé - se tra una decina di minuti avrebbero ostentato entrambi tutta la loro sicurezza e giovialità.
Loro infatti erano alcuni di quelli per i quali si era riservato un trattamento speciale; con loro avrebbe usato le pallottole “dum dum”, quelle dirompenti, con le quali aveva riempito due interi caricatori, ai quali aveva fatto sopra una segno con la vernice arancione proprio per riconoscerli velocemente nella sacca.

Nulla infatti era lasciato al caso. Nulla doveva andare storto. Tanto è vero che nell'ultimo mese invece di andare a lezione quasi ogni giorno era andato nel bosco dietro casa sua ad allenarsi con le sagome di cartone, alle quali prima sparava alle gambe e poi alle braccia e quindi alla testa, come nel videogioco. Fantasticando di come, dopo una tale sequenza di colpi e prima di finirli, magari li avrebbe anche potuti vedere strisciare a lungo tutti quegli stronzi, godendosi anche stavolta lo spettacolo ... oh sì, proprio come nel videogioco.

Percorso il corridoio, arrivò dinanzi alla porta dei bagni, che era appena prima di quella della biblioteca, si soffermò, l' aprì lentamente, sbirciò all' interno per entrare quindi nella toilette più vicina. Appoggiò la sacca sul water e l'aprì, mentre sentì che qualcuno dietro di lui entrava in fretta e si chiudeva nella toilette alla sua destra.

Con calma, quasi assaporando in modo mistico i gesti, cominciò a fasciare con il nastro isolante a gruppi di due le bombe a mano, appendendole delicatamente ai ganci che aveva predisposto sulla cintura dei pantaloni, così da poterle afferrare con estrema facilità, come aveva già provato da solo a casa. Inserì un caricatore in ciascuno delle mitragliette uzi, mentre con gli altri riempì le tasche del giubbotto e dei pantaloni. Quindi, dopo aver messo il colpo in canna ad entrambi i mitragliatori e tolto la sicura alla Beretta che era già carica, li impugnò.

Era pronto finalmente. Era a un passo dall' inizio, nessuno poteva ormai più fermarlo.
Cosa sarebbe successo dopo non gli interessava, non si era nemmeno posto il problema. Magari sarebbe andato a casa, avrebbe ordinato una pizza e nell'attesa si sarebbe rivisto in tv chiuso su in soffitta per non essere disturbato neppure da sua madre, che comunque quella sera era a lavoro in ospedale ed aveva il turno fino a tardi.

Sentì che chi era entrato poco prima nella toilette alla sua destra ne stava uscendo, aspettò dei lunghi secondi che quel qualcuno si fosse avvicinato ai lavabi, che avesse aperto e richiuso l'acqua e poi spalancò con un calcio violento la porta.

Dicono che i primi ricordi di un avvenimento nuovo ed emozionante che ti accade sono sempre quelli che ti restano più a lungo in mente, una sorta di imprinting emozionale. E gli occhi a mandorla oltre all'espressione, dapprima sorpresa, poi stupefatta ed infine terrorizzata di quell' asiatico del suo compagno di corso dal nome impronunciabile, Xiu Chang Li Chen o qualche merda di nome cinese del genere, furono ciò che in effetti ricordò più a lungo dei momenti successivi.
Dimenticò infatti quasi subito la testa mezza spappolata dello stesso Xiu Cheng Li Chen e la materia cerebrale che ne usciva dopo che lo aveva colpito con due lunghe raffiche.
In cosa era bravo quel tipo? Forse in matematica gli sembrava di ricordare. Sì, era certo così, tutti gli asiatici erano bravi in matematica, magari non erano bravi a difendersi, ma nelle materie scientifiche sapevano cavarsela.
Piuttosto - riflettè preoccupato - quelle due lunghe raffiche solo su quello stronzo di Xiu era stato un inutile spreco di colpi. Uffa! Doveva restare lucido e stare più attento a non esser avventato. Doveva restare calmo e concentrato per non sprecare munizioni inutilmente come nel videogioco, se voleva divertirsi a lungo. Ma era così difficile, perché adesso tutto era così dannatamente bello e reale ...

Breitenfeld

Un sordo frastuono di zoccoli scosse d’improvviso la foresta, rimbombando fra gli alberi, e paralizzando un cervo che si abbeverava ad un ruscello poco lontano.
Più avanti, lungo il sentiero, il soldato svedese appena udì quel suono così familiare, si arrestò, imbracciò il fucile, per subito lasciare in fretta il sentiero, correndo a nascondersi fra i cespugli.
Conosceva infatti l’origine di quel rumore ed anche come la vegetazione, così scarna, non lo avrebbe mai potuto celare agli sguardi, se avesse continuato a correre tra gli alberi anche solo per pochi metri.
I dragoni comparvero, come d’incanto, sul sentiero, uscendo da dietro alcuni alberi di castagno.
Le uniformi con effigiata l’aquila imperiale, i moschetti e le lunghe sciabole legate alle selle passarono al galoppo attraverso la radura, e scomparvero alla vista così repentinamente come erano apparse.
Il soldato sorrise per lo scampato pericolo, ma sapeva che un’altra volta non avrebbe certo avuto identica fortuna.
La cavalleria imperiale era stata sguinzagliata da Tilly dappertutto, alla ricerca dell’esercito svedese, ed i due eserciti erano ormai così vicini che le rispettive avanguardie stavano ormai esplorando lo stesso territorio.
Il contatto e l’inizio dello scontro era solo questione di ore.
Gustavo Adolfo era impaziente di confrontarsi con le truppe imperiali, forse altrettanto di quanto lo fosse il vecchio generale Tilly, ma nessuno dei due voleva certo concedere all’avversario il vantaggio del terreno durante lo scontro.
Il soldato rialzatosi, decise di tornare subito indietro ad avvertire i compagni che la zona era troppo pericolosa e che sarebbe stato meglio riunirsi al resto del plotone.
Percorsi poche centinaia di metri avvertì gli spari e le urla provenire da là dove aveva lasciato gli altri e comprese, senza provare alcun rammarico, che lo scontro era cominciato in sua assenza.
Avvicinatosi si nascose dietro una grossa quercia, mentre poco più avanti scorgeva, attraverso il fumo dei moschetti e degli archibugi i suoi compagni impegnati in furiosi corpo a corpo con uno squadrone di lancieri.
Le grida, il sangue, gli spari, i colori delle uniformi e delle cavalcature si mescolavano come in un grottesco dipinto dove il quadro d’insieme perdeva valore al cospetto delle singole parti.
Mentre le sciabole si alzavano e si abbassavano con violenza, i proiettili colpivano abbattendo cavalli e trapassando le membra e le lance attraversavano i corpi, il soldato restava lì immobile, quasi ammirato di quello spettacolo dove la vita lasciava ogni attimo il posto alla morte, come in un assurdo ma affascinante balletto.
In tale stato d’animo scorse, poco distante, un lanciere imperiale che, con la spada sguainata, veniva al galoppo nella sua direzione, ma mentre imbracciava il fucile e prendeva la mira, notò come l’elmo sulla testa del lanciere quasi ondeggiasse e pensò, premendo il grilletto, che forse anche quel lanciere, lo aveva perso, come lui, in battaglia e lo aveva sostituito con un altro preso a qualche commilitone caduto.
Come trattenuta da una corda che si tende d’un tratto, la testa del lanciere ebbe un sussulto all’indietro, facendolo piombare al suolo giù da cavallo, come un sacco pesante ma informe, mentre l’elmo, troppo largo per la testa dell’uomo, rotolava via tra le foglie, intriso di sangue.
Adesso anche lui, pensò il soldato, aveva fatto apparire dal nulla, ancora una volta e per una frazione di secondo, l’Oscura Signora, che mai mostra il suo volto seppur invocata.
Un dolore lancinante e improvviso troncò però di netto i suoi pensieri, mentre una spinta violenta, facendogli cadere l’arma, lo appiattì contro l’albero che gli aveva offerto rifugio.
Capire di esser stato colpito fu tutt’uno col sentire che il respiro gli veniva a mancare ed avvertire il calore del proprio sangue sulla pelle, ma mentre moriva vide poco lontano il volto stanco e impaurito del lanciere che gli aveva appena sparato e in fondo fu felice di affidare a lui, oltre quello per la propria, anche il peso della sua di vita.


Isher è anche Wallenstein