30 aprile 2009

Ricordi



Grigia bruma autunnale, radi alberi che si infittiscono e poi di colpo, di fronte a noi, formano un bosco, avvolto anch’esso nella nebbia che, lentamente, si solleva dal suolo in una terra germanica, perennemente impregnata di umidità.

Solo elmi e scudi sulla linea del mio orizzonte ed aliti di vapore frammisti al silenzio, quello assoluto, totale, quello dei pensieri sulla morte e della ferma determinazione, quello della ferrea disciplina e dei nostri valori ancestrali sul coraggio e sull’onore.
Una lunga linea di grigio acciaio e di punte acuminate che, asimmetriche, scompaiono in lontananza.
Profili indefiniti di decine di volti, sagome quasi irreali adesso, anche se da me ben conosciute.

L’attesa …… sempre la stessa come ogni volta, da molti anni.

E l’ansia che diviene palpabile, quasi visibile, come lo scudo di Massimo che copre il mio fianco destro ed il forte braccio di Varo, con l’alto pilum, cui il mio scudo offre riparo, alla mia sinistra.

Il nemico indefinito, informe è di fronte a noi, forse mille, forse solo cento passi; ne percepiamo la presenza, oltre alla sua stessa inquietudine che nasce dal vederci fermi, risoluti… orgogliosamente sicuri della nostra superiorità e che ancora lo frena nel suo desiderio selvaggio di dare battaglia.

Spalla contro spalla, gli uni vicini agli altri, avvertiamo la stessa tensione la stessa ansia che avvolge il cuore, ma siamo determinati, un’unica entità pronta allo scontro, gli occhi fissi dinanzi a noi su sagome indistinte che, forse frutto della nostra attesa, pervadono la nebbia insieme con il nostro immaginario, mentre il comandante Marsilio, immobile, appena fuori della linea formata dai nostri scudi, scruta il limitare della radura, da dove ciascuno di noi vedrà, a momenti, apparire il proprio destino.

Lucio e la IX coprono il nostro fianco destro, non li vediamo, attraverso questa nebbia e questa luce fioca, che fagocita tutto insieme al paesaggio, ma sappiamo che sono là, schierati su quattro linee e pervasi dalla nostra stessa inquietudine.

Come Valerio con la XIV “Virtus” a centoquaranta passi da noi verso est, più al centro della pianura e certo con le lance delle prime file già abbassate in attesa dell’urto.

Il momento delle scelte, il momento dei pensieri oscuri, il momento della raccomandazioni agli Dei, il momento delle certezze, il momento della nebbia della ragione, il momento in cui si fanno risuonare incessanti nella mente le parole del centurione Cornelio, unico ricordo dei molti mesi di addestramento, tante e tante lune orsono, ricordo di un tempo così lontano, che adesso fatichiamo a crederlo veramente vissuto.

L’attesa, terribile compagna che sola ci fa progredire tutti insieme nel nostro coraggio, l’attesa in un sentire comune che ci unisce e ci fonde quasi in un’unica entità, nella quale le nostre individualità scompaiono e nella quale ci nutriamo reciprocamente, l’uno della fermezza dell’altro.

L’attesa, un breve respiro trattenuto, un movimento comandato dal nostro cervello che non viene eseguito, un pensiero percepito nel nascere e immediatamente schiacciato e soffocato con rabbia, traendo forza dal compagno che ci sta al fianco.

Improvvisa la liberazione si materializza dinanzi a noi sotto sembianze di uomini urlanti, selvaggi privi di disciplina che combattono solo spinti dall’odio, che si credono cacciatori mentre moriranno da prede, come altri prima di loro.

La Legione all’unisono si irrigidisce, i muscoli si tendono, le gambe cercano stabilità nel terreno, gli scudi, con un unico movimento, leggermente si alzano per poi contemporaneamente unirsi, quasi spezzando, nell’incastro, le lance che abbassiamo, d’un tratto, protendendole dinanzi a noi.

Ancora cento passi e distinguiamo meglio i loro volti, ancora cinquanta passi e comprendiamo chi sarà il nostro avversario, colui che dovrà morire per permetterci di vivere.

Nella fermezza di chi ci sta al fianco, nel silenzio della sua voce, nella fiducia che in lui riponiamo adesso affidiamo, ciascuno, le nostre certezze e costruiamo l’ultimo nostro rifugio; mentre la mente si ottenebra nell’oscurità della ragione, soffocata da istinti primordiali di sopravvivenza e di rabbia.

Noi che siamo gli ambasciatori della civiltà, i figli di una cultura superiore …
i legionari.

Poi l’urto, terribile, violento, previsto ma che egualmente ci sospinge, ci travolge e ci fa barcollare, mentre vediamo le ferite, il sangue, le maschere di dolore ed accanto un compagno che cade, cui non possiamo prestare soccorso, perché tutti sappiamo che dobbiamo, a costo di qualsiasi sacrificio, tenere la linea.

Il nostro scudo che protegge il compagno e i colpi che sferriamo sono l’unica preoccupazione, unita alla fiducia che lo scudo di chi ci sta a fianco egualmente stia saldo.

Sangue, membra lacerate e colpi violenti inferti, da entrambe le parti, con una ferocia di cui le stesse belve mai si sognerebbero, noi, i portatori della pace, contro loro i barbari, stupidi difensori di usanze ancestrali e costumi primitivi.

Una pressione continua, crescente, che si unisce alle urla ed al rumore assordante del metallo, mentre lo scudo si fa sempre più pesante ed il riflesso ormai connaturato del parare ed infliggere i colpi prende il sopravvento su ogni mio pensiero, su ogni mia titubanza.

Un frastuono sul quale sento chiara solo la voce del comandante, che ci urla di restare immobili e tenere la posizione, mentre Massimo crolla a terra, col cranio fracassato, lasciandomi scoperto sul fianco, ma subito sostituito da un compagno che, dalla seconda linea, avanza d’un balzo, affiancando il suo scudo al mio, chiudendo il varco.

L’orda come un’onda si infrange sempre con maggior violenza, consapevole che, se respinta, verrebbe a sua volta travolta.

Poi il crollo fulmineo ed inatteso, alcuni compagni che cadono, la linea che sbanda, l’urto che, dapprima lineare, si frantuma in mille scontri individuali, mille rivoli di combattimenti corpo a corpo, dove solo l’esperienza ed il Fato comandano, dove, mentre, alla cieca, abbatto il nemico più vicino e recido, di netto, con la daga, l’avanbraccio di un altro barbaro, confido ancora di avere, alle spalle, un compagno, piuttosto che un avversario.

Così libero senza freni il mio furore, mentre colpisco con tutta la violenza e la rabbia di cui sono capace, lottando per la vita ed odo solo il mio urlo primordiale sovrastare il rumore dei colpi.

Ma la Legione è ancora viva e presente, anche se frantumata, ancora lotta disperata per non soccombere, seppur frazionata in mille individualità selvagge.

E a questo punto è il nemico a vacillare, quasi sorpreso da quella resistenza accanita, è l’orda a cercare un elemento che la tenga unita, ora che è riuscita a frazionare quell’avversario che pareva monolitico, è l’orda che sbanda, che indietreggia mentre ancora cerca un riferimento cui aggrapparsi, esaurito il compito che si era prefissa e nello stesso istante in cui la V Legione “Felix”, dalle retrovie ed a ranghi compatti, si immerge nella mischia.
Come una macchina da guerra ben addestrata, le coorti di rinforzo penetrano in file ordinate tra le nostre file residue, frantumano le difese dell’orda e risolvono gli ultimi scontri, lacerando le carni e calpestando corpi ormai mutilati con una progressione lenta ma inesorabile, che, come d’incanto, mi sottrae lo stesso avversario che avevo dinanzi, lasciandomi, da solo, di fronte al suo corpo ora dilaniato, al centro della pianura.

La vittoria grondante di sangue dirada le ultime nebbie che filtrano un sole malato.

Tra i corpi straziati dei nemici e di volti amici ed un fetore insopportabile di sudore adesso vedo la morte sollevarsi, sazia, dal campo di battaglia, recando via con sé molte speranze e molti sogni cui ancora la stessa sera precedente, intorno ai falò, ero stato fatto partecipe e che anch’io avevo condiviso.

Colgo il corpo inerte di Settimo e più in là quello mutilato di Claudio mentre Varo, l’armatura quasi lavata nel sangue, mi si avvicina, quasi a voler di nuovo ricomporre una linea che ormai non esiste più, poi entrambi rispondiamo al richiamo del centurione della VII coorte per raggrupparci, dopo che abbiamo scorto il nostro comandante a terra, privo di vita.

E lancio un ultimo sguardo, quasi di invidia, alla Legione “Felix” che sta inseguendo i barbari nel bosco, mentre da terra raccolgo l’aquila e le insegne della XIX “Civitae” …… la mia Legione.

Cordoba

La fioca luce del tramonto si attenuava lentamente fin quasi a scomparire dalle ultime colonne sul fondo dell’immensa sala, lasciando il posto all’oscurità che, a poco a poco, avvolgeva il salone.
Solo i riflessi vermigli delle torce sulle pareti, con i loro bagliori rossastri, rischiaravano a tratti la folla dei presenti.
Amhed, inginocchiato accanto al suo maestro, ripeteva, raccolto in preghiera, la Sura, mentre questi, seduto al suo fianco avvolto nella lunga veste da cerimonia, appariva distante, con lo sguardo assorto sotto la barba canuta.
La Moschea dalle cento colonne si stendeva a perdita d’occhio intorno a loro ed alle centinaia di fedeli lì riuniti per la preghiera della sera, come se Allah, sia Benedetto il Suo nome, avesse voluto ancora una volta radunarvi lì gli eletti, per avvolgerli in un unico grande abbraccio.
All’unisono, come membra animate di un unico essere, i fedeli si alzavano ritmicamente in piedi, per poi inginocchiarsi fino a toccare con la fronte le stuoie che coprivano il pavimento della Moschea in direzione del mihrab, il vero cuore di questa, rivolto in direzione della Sacra Roccia.
La nicchia, illuminata dal fuoco delle fiaccole, che ne accentuavano i riflessi rossastri del tramonto, risplendeva di una luce magica che ne esaltava le decorazioni ed i fregi, facendo apparire lì, palpabile, la presenza dell’Onnipotente.
Una luce mistica avvolgeva poi il Sacro Libro, quasi infondendo vita alle iscrizioni fregiate d’oro mentre, a pochi metri, su una pedana leggermente sopraelevata e coperta di morbidi cuscini, il Califfo Al Mansur era inginocchiato in preghiera, circondato dagli alti dignitari di palazzo.
Poi la voce del Gran Visir si alzò improvvisa, sopra le altre, annunziando la fine della preghiera ed invitando i fedeli ad invocare la protezione di Allah, sia sempre Benedetto il Suo nome, sul Califfo Al Mansur e sulle loro vite.
Amhed lo vide allora uscire, austero ed avvolto in vesti preziose intarsiate di gemme, preceduto dalle guardie di palazzo e dal seguito dei notabili.
Al Mansur, il Califfo Omayyade, ultimo discendente del Profeta e di quella dinastia che aveva regnato nella misteriosa Baghdad tra fasti e splendori inimmaginabili, scacciata solo dal tradimento e dal bagno di sangue che aveva posto sul trono, al loro posto, la stirpe degli Abbasidi.
E mentre la folla, lentamente, alzandosi dalle stuoie, abbandonava la Moschea, Amhed notò come una piccola folla di giovani si stesse raccogliendo attorno al suo maestro, ancora assorto in preghiera, desiderosi di ascoltare, attraverso questi, le parole e gli insegnamenti del grande scienziato greco Aristotele, il cui pensiero il suo maestro così a fondo aveva esplorato nell’età della giovinezza.
Averroè, nel silenzio della piccola folla raccoltaglisi attorno, alzò allora lo sguardo verso di lui, facendogli cenno di avvicinarsi per aiutarlo a rialzarsi e accompagnarlo verso il patio esterno.
E mentre lo sorreggeva camminando insieme attraverso la selva di colonne in pietra che li circondava, Amhed ne scorse ancora lo sguardo quasi spento, come perso in un mondo irreale in cui le argomentazioni del pensiero non erano ancora riuscite a trovare una risposta agli interrogativi dell’anima.

Il Duca d'Alba

Il bavero del mantello nascondeva parzialmente agli sguardi delle sentinelle di servizio a palazzo, il volto dell’uomo che, ogni sera, al crepuscolo, passeggiava nei giardini della residenza imperiale di Anversa, totalmente assorto nei suoi pensieri sotto lo sguardo vigile dei soldati ormai avvezzi a distinguere in quella sagoma leggermente curva, i tratti familiari del Duca.
Rapide sfuggenti occhiate, mosse più dal timore che dalla curiosità, sempre si alzavano al passaggio di quella figura ansiosa, mentre l’uomo, con passo deciso, percorreva svelto i vialetti per raggiungere i suoi appartamenti.
In quegli occhi cupi si potevano leggere ancora intatte, nonostante le violenze a cui avevano assistito, l’immutata determinazione nel portare a termine il proprio incarico con qualsiasi mezzo ed a costo di qualsiasi ferocia, sostenuta dalla completa fiducia che quel compito non gli fosse stato affidato dal sovrano unicamente per difendere gli interessi della corona spagnola in quelle terre, quanto piuttosto da una volontà superiore che si serviva di lui come strumento per riaffermare la vera fede estirpando i demoni dell’eresia.
Solo tale convinzione, unita alla totale devozione verso quella stirpe regale, che Dio stesso aveva chiamato a governare il mondo, gli permettevano di superare rimorsi ed incertezze, firmando ogni giorno decine di condanne a morte.
E mentre guardava le verdi colline del Bramante e ne assaporava i profumi acri, confusi nell’aria umida d’autunno, la sua mente correva lontano alle terre aride e desolate di Castiglia, agli altopiani dell’Aragona ed ai monti Cantabrici della Galizia, dove, nelle battute di caccia a cervi e daini, aveva lasciato per sempre la sua giovinezza.
E quei soldati, che lo avevano seguito nelle lunghe guerre d’Italia, mercenari senza famiglia né futuro, indifferenti ad ogni violenza e sopruso, erano ormai il solo legame che gli rimaneva con la sua vita di un tempo, quando anch’egli dava libero sfogo al suo vigore giovanile, guidando personalmente i suoi tercios in battaglia ai saccheggi delle città o nella devastazione di villaggi e campagne.
Sempre più spesso però, ogni notte, si sorprendeva a scrutare il cielo stellato ed a cercar di cogliere il rumore della sua anima inquieta, ed allora, per qualche minuto, si soffermava vicino alla piccola fontana tra gli alberi vicino al corpo di guardia, così immersa fra rami e siepi da sfuggire agli sguardi attenti delle sentinelle, là dove sembrava che anche il tempo si fermasse ai margini per non turbarvi il riposo che l’eternità lì vi si concedeva.
Poi in fretta, quasi impaurito dai suoi stessi pensieri, entrava nel cortile delle scuderie, saliva in fretta le ampie scalinate e percorreva con passo deciso i lunghi corridoi sbirciando appena, attraversando gli ampi saloni, le statue e le enormi tele che spesso disegnavano sfondi surreali alle spalle dei soldati che vigilavano sulla sua incolumità.
Sapeva che i suoi uomini lo temevano e non certo per le sue abilità guerriere, ormai precarie ed incerte, o per la morte che poteva ordinare e che sarebbe giunta immediata, quanto piuttosto perché terrorizzati al pensiero di poter un giorno cogliere sul suo volto una qualche traccia di dubbio, che, sfogo irrazionale della sua anima e della loro stessa coscienza, avrebbe tolto anche a loro, d’un lampo, le certezze sulle quali avevano giocato tutta la loro esistenza.
Richiudendosi la porta dello studio alle spalle lasciava poi dietro di sé ogni incertezza, e sulla soglia, fissando per qualche secondo ora lo scrittoio con i fogli lì in attesa, ora il suo letto, trasformava una banale scelta quotidiana in un bivio del destino per molti uomini e donne, che, inconsapevoli, in quella scelta di stanchezza si stavano giocando la possibilità di aprire gli occhi nuovamente su un nuovo giorno.
E come ogni sera, mentre sorseggiava un vino impregnato dell’odore di muffa tipico delle terre di Catalogna, dischiudeva i pesanti tendaggi così da poter osservare dall’alto i tetti e le strade della città addormentata, cercava con lo sguardo la ronda che lentamente percorreva la via che la conduceva al porto, per poi fissare a lungo il profilo familiare dei galeoni ancorati in rada, che l’indomani sarebbero salpati alla volta di Cadice.

La luce in fondo al sentiero

Dall’alto del colle Angalf, Signore di Endor, fissava gli squadroni dei suoi lancieri, le sue truppe scelte, allineate nella pianura.
Le nere armature bordate d’oro e le lunghe picche rivolte verso il cielo stellato risplendevano di sinistri bagliori argentei.
Un silenzio irreale era calato sulla valle, gli uomini attendevano gli ordini ed i capi squadrone aspettavano solo un cenno del Duca per muoversi mentre Angalf, li osservava in silenzio.
Quegli uomini erano, la sua guardia scelta, le truppe più temute dei Cavalieri Teutoni, con i quali da anni seminava il terrore e la morte lungo tutte le terre selvagge della Livonia Orientale.
Quegli uomini, con i quali aveva condiviso l’odore acre degli incendi, il sangue ed i volti terrorizzati delle loro vittime ed il comune disprezzo per quei popoli pagani.
Le schiere dei Cavalieri del Supremo Ordine Teutonico, ormai da settimane, stavano mettendo a ferro e fuoco le regioni orientali della Livonia, nell’ennesima Crociata contro gli infedeli.
Angalf amava, nonostante tutto, quegli uomini, ai quali avrebbe potuto chiedere qualsiasi sacrificio e che sapeva lo avrebbero seguito sino in Terra Santa, a liberare il Santo Sepolcro dai Saraceni, non certo perché mossi da una fede sincera nelle Scritture, bensì perché la guerra e la morte erano l’unico elemento che ormai li accomunava.
Ma Angalf era stanco di rincorrere il suo destino, di fingere di credere in un Dio che aveva ormai abbandonato negli occhi delle sue vittime o nel sangue ancora fumante, che zampillava dal collo di un contadino appena sgozzato.
La sua anima era persa, volata via d’un tratto come un corvo dal ramo di un albero nel centro di una radura, sul quale solo pochi attimi prima si era posato, esausto, dopo un lungo volo.
Era stanco di quella guerra, così come della sua stessa vita; entrambe non avevano per lui più alcuna attrattiva, continuare sarebbe stato solo un’ennesima bugia in una vita in cui la falsità era divenuta la compagna inseparabile della propria coscienza.
Il nitrito dei cavalli immobili nella valle, le nuvole di fiato che uscivano dalle narici dei suoi uomini e dalle loro cavalcature lo distolsero per un attimo da questi pensieri, mentre una stella ancora più luminosa parve balenare nel cielo stellato, attirando per un attimo la sua attenzione, verso un lontano spicchio di cielo stellato in alto, dinanzi a lui.
Il chiarore di una Luna quasi diafana illuminava la pianura, silenziosa spettatrice dei loro destini.
Un cavaliere improvvisamente si mosse da quelle schiere ordinate e, con un lento trotto, attraversò le prime file, raggiungendo le pendici della collinetta ed affiancandosi ad Angalf.
Angalf subito riconobbe nell’uomo il giovane Enkhart di Lusza, il suo luogotenente, così possente nella sua armatura di ferro, con quel suo sguardo fiero ed i lunghi capelli corvini, che, prepotenti, spuntavano da sotto l’elmo intarsiato con le insegne della casata degli Hostrasser.
“Quali sono i Tuoi ordini” gli disse Enkhart non appena gli fu giunto accanto.
“Ci ritiriamo” gli rispose Angalf senza neppure rivolgergli lo sguardo, ma continuando a fissare oltre le linee dei suoi uomini ed oltre le loro lance quelle sconfinate distese verdi, interrotte solo qua e là da paludi, qualche collina e punteggiate di radi boschetti di abeti.
“Torniamo al castello di Kaunas” - aggiunse Angalf spostando il suo sguardo su Enkhart e fissandolo a lungo negli occhi – “ sono stanco di questa scorreria e sono stanco di imporre con il sangue una fede che forse non ho mai avuto”.
“Ma Signore..” disse Enkhart “….proprio adesso che siamo a soli venti chilometri dalla città di Dunaburg, dove dobbiamo ricongiungerci con le truppe del Gran Maestro di Marienburg”.
“Vai Tu, se vuoi, prenditi quattro squadroni e lasciami i due della mia guardia personale. Lascerò a Ludwig e Freizer di decidere liberamente se seguirti con i loro uomini o se tornare ad Kaunas con me.”
“Gli uomini non mi seguirebbero senza di Te” – riprese Enkhart – “e neppure Ludwig e Fraizer lo farebbero”
“Allora dì loro che torniamo indietro” – aggiunse Angalf – spronando improvvisamente il cavallo verso Ovest giù dalla piccola collina in direzione di Kaunas, scomparendo in fretta agli sguardi dei suoi uomini.
La fredda brezza notturna quasi bruciava il volto e faceva lacrimare gli occhi, mentre in un galoppo sfrenato Angalf percorreva la pianura, attraverso stagni paludosi semi ghiacciati ed un terreno indurito dal gelo.
Percorse alcune miglia, fermò la sua corsa nei pressi di un boschetto e, voltatosi indietro, vide i suoi uomini che, in squadroni ordinati, lo seguivano al galoppo, riconoscendo in testa la sua guardia personale e dietro Enkhart con a fianco i mercenari di Ludwig e più staccato, in posizione di retroguardia, come suo compito, Fraizer e i suoi teutoni.
Angalf li attese per poi cavalcare alla testa della colonna, per il resto della notte, in un silenzio irreale, rotto solo dal rumore delle loro cavalcature sulla pianura, mentre quelle terre di frontiera mostravano, al loro passaggio, il loro volto arido e desolato.
Ai primi albeggi Angalf ordinò di arrestare la marcia e di far riposare gli uomini per alcune ore, assegnando la sorveglianza del bivacco ai lancieri della sua guardia personale per poi, stremato, coricarsi a fianco del proprio cavallo.
Risvegliatosi solo dopo poche ore di sonno, trascorse in un dormiveglia agitato, Angalf dette ordine di riprendere subito la marcia e, a tappe forzate, guidò i suoi uomini sino alle colline di Elmoran da cui, in lontananza, immerso nel verde, si poteva intravedere la doppia cinta muraria e le alte torri del castello di Kaunas, apparentemente baluardo della cristianità in quelle terre di frontiera, in realtà luogo di efferatezze e crudeltà indicibili e cupo nascondiglio della sua, oltre che di molte altre anime corrotte, dalle luci del mondo.
Mentre si avvicinava a quel regno delle tenebre, attraverso il sentiero che si snodava all’interno della fitta foresta che cingeva, quasi a separarlo dal resto del mondo, il castello, Angalf avvertì che la sua inquietudine, piuttosto che diminuire, aumentava man mano che si avvicinava alla sua dimora, divenendo quasi incontrollabile quando, dal sentiero, cominciava ad intravedere, attraverso la vegetazione, l’alto muro di cinta in pietra nera, con i posti di guardia illuminati dal fuoco dei bracieri accesi sugli spalti che, per suo espresso ordine, ardevano incessantemente giorno e notte, sinistro monito fiammeggiante per i viandanti ad evitare quei luoghi e spettrale anticipo di ciò che, nell’al di là, attendeva le anime dei suoi abitanti.
Un drappo con sopra la croce nera bordata d’oro in campo bianco, simbolo dell’Ordine Teutonico, sventolava dalla torre più alta, ma solo da sotto le mura, si sarebbe potuto distinguere, disegnata su quello stesso vessillo, l’immagine di un corvo dagli artigli sanguinanti, il sinistro emblema scelto da Angalf per se stesso e per i suoi uomini.
Il lungo drappello comparve d’improvviso ai margini dell’ampia radura che circondava il castello, cogliendo quasi di sorpresa i soldati di vedetta sugli spalti, che subito passarono la voce dell’arrivo del loro Signore, abbassando in fretta il ponte levatoio ed aprendo i due pesanti portali di ferro che, di seguito l’uno all’altro, serravano, sorretti da quattro robuste torri, l’entrata principale.
Angalf smontò in fretta di sella non appena entrato nel cortile più interno, dirigendosi a passi veloci verso il palazzo.
Salì in fretta le ripide scale che portavano ai suoi appartamenti, mentre i soldati di guardia si arrestavano inquieti al suo passaggio, interrogandosi se quel ritorno inaspettato dovesse presagire a nuovo sangue e nuovo terrore.
Percorse in fretta i lunghi corridoi e le ampie sale, ancora immerse nell’opaco chiarore dell’alba e rischiarate dalle fiamme delle fiaccole che ardevano lungo i corridoi del palazzo, giungendo infine dinanzi a quella porta, unica meta del suo disperato vagare di quella notte.
Quasi paralizzato, nonostante l’ansia che lo divorava, Angalf attese alcuni minuti prima di trovare il coraggio di spingere lentamente il battente e varcarne la soglia.
Entrato subito la vide, così bella e dolce come se la ricordava, in piedi accanto alla finestra, ancora intenta a cercarlo con lo sguardo giù nel cortile, fra i soldati che, appena arrivati, smontavano le cavalcature.
Era bellissima, i lunghi capelli biondi leggermente mossi, i lineamenti delicati, impreziositi dal colore azzurro degli occhi e da un sorriso celestiale che, quando sorrideva, le illuminava il volto.
Lei si voltò d’improvviso e Angalf, sorridendole, la fissò in silenzio, cercando di fermare quell’attimo di intimità tra loro per l’eternità, mentre lei, raggiante di gioia, attraversava di corsa la stanza per abbracciarlo.
Rimasero a lungo l’uno fra le braccia dell’altra lì in piedi, vicino alla porta, senza dire niente, ascoltando entrambi il loro respiro.
“Ti amo” sussurrò lei “ non credevo che saresti tornato così presto…..avevo così tanto bisogno di te…… che non sapevo più come fare……quando poco fa ho sentito le vedette annunciare il tuo arrivo non riuscivo a crederci… sono così felice” – aggiunse lei con un filo di voce mentre, delicatamente, gli appoggiava il volto sul torace.
Angalf le passò delicatamente le dita tra i capelli, accarezzandole il collo e le guance.
“Ti voglio bene – disse Lui continuando a stringerla forte a sé – … non ce la facevo più a stare lontano da te…sono così stanco di tutto questo sangue, di questo dolore…..avevo così tanto bisogno di vederti ”.
“…sei la mia unica ragione di vita – riprese Angalf, quasi con un sussurro - riesco a reggere a tutto questo solo perché guardando il cielo so che laggiù da qualche parte ci sei tu, con quel tuo sorriso così dolce, con le tue paure…. Sei l’unica parte buona rimasta in me … quello di buono che io avevo un tempo l’ho ormai perso.…senza di te tutto sarebbe solo tenebra.”
Rimasero a lungo abbracciati vicino al fuoco e Angalf pianse in silenzio tra le braccia di lei.
La ragazza, Shena Kassilivi, era la figlia di un notabile lituano che, catturata insieme con la famiglia, durante il saccheggio di Vilasius, venne risparmiata dal Gran Maestro dell’Ordine Teutonico dalle torture e dalle violenze, di cui furono vittime gli altri abitanti ed i suoi stessi familiari, perchè questi aveva pensato di far cosa gradita ad Angalf offrendogliela quale dono di guerra.
Angalf aveva accettato il dono, come era accaduto già molte altre volte, quando alcune ragazze giovani, di solito molto piacenti, gli venivano donate dal Gran Maestro per generosità o semplice complicità.
Erano ragazze con cui Angalf si divertiva una o due notti per poi assegnarle ai servizi domestici di palazzo e che, ai suoi occhi, dovevano ringraziare Dio Onnipotente di non subire la stessa sorte dei loro familiari ed anzi di essere educate nella vera fede.
Ma quando, la prima sera, gli fu condotta in camera la giovane, Angalf nel vederla, ne rimase stranamente turbato, sia per la straordinaria bellezza che per la dolcezza dei modi, così da decidere di affidarla, per alcuni giorni, alle cure di alcune serve ed alla sorveglianza di due lancieri fidati, mentre lui era impegnato in continue scorrerie e scontri di frontiera contro gli slavi; devastazioni sanguinose che delle crociate mantenevano solo il nome, forse per ingannare, come uno stupido alibi, le coscienze di coloro che perpetravano tali efferatezze.
Poi un giorno, nel cortile, al rientro dall’ennesima carneficina, aveva incrociato di sfuggita lo sguardo di Shena mentre, con ancora l’armatura sporca di sangue, smontava da cavallo ed inspiegabilmente si era sentito come nudo ed aveva desiderato solo sottrarsi in fretta a quegli occhi.
Poi due notti dopo, preso da una strana inquietudine, aveva vinto gli indugi e si era recato nella stanza dove dormiva la ragazza trovandola vicino al camino, ancora sveglia, che fissava le braci ardenti.
Avvicinatosi, quasi impaurito, l’aveva vista sorridergli e così era rimasto con lei l’intera notte, così come la notte seguente e quella ancora successiva, meravigliato di come la giovane, pur temendolo, gli dimostrasse il suo affetto, come un giovane cerbiatto indifeso ormai in balia del proprio carnefice, nel quale deve comunque riporre la propria fiducia, affidandogli la propria vita, forse per un senso di speranza, ancora intatto, nei confronti del mondo che lo circonda.
Ed a poco a poco la giovane era diventato questo per lui, l’ultimo barlume di bontà in un mondo di tenebra, un essere indifeso da proteggere dall’odio e dalla crudeltà che li circondava entrambi.
Così d’improvviso si erano resi conto di essersi innamorati, ed ogni notte, chiusi nel loro piccolo mondo, trovavano negli occhi l’uno dell’altra la fuga all’oscurità che li avvolgeva.
Da allora Angalf pur continuando a guidare i suoi uomini in battaglia e ad obbedire fedelmente agli ordini del Gran Maestro, cercava di limitare le efferatezze, frenando, quando poteva, gli eccessi di crudeltà dei propri soldati.
E questi avevano interpretato questo nuovo atteggiamento come frutto piuttosto di quella stanchezza, figlia delle guerre che non trovano mai una fine, che non di un cambiamento, invero per loro inconcepibile, dell’animo del loro Duca.
Nessuno infatti conosceva, né poteva immaginare la verità del sentimento che era nato in Angalf e che lo legava alla giovane lituana.
Tutti, anche gli uomini più vicini al Duca, pensavano infatti che l’assidua frequentazione della giovane da parte di Angalf fosse dovuta più ad un capriccio passeggero, come già altre volte in passato era accaduto, che non ad un vero mutamento interiore.
Ma stavolta Angalf aveva trovato nella ragazza qualcosa a cui non avrebbe rinunciato neppure per tutti i tesori accumulati dall’Ordine a Konisberg, in lei aveva trovato finalmente la pace della sua anima.