7 dicembre 2011





Sfugge sotto il cielo di fuoco un pensiero di cera,
si scioglie al sole dell'anima in un grigio mattino.
Un pensiero inespresso che muore nell'attimo.

6 dicembre 2011




Qualche ora di serenità.
Qualche attimo di pace.
Nascosto agli sguardi coltivo i miei interessi e scrivo queste due righe.


Perché la foto? Mi piace tutto qui. 

E' strano che mi piaccia lo so; 
ma questo camminamento recintato posto sul confine tra le due Coree 
pattugliato ininterrottamente da ormai 50 anni 
e la ripetitività dei gesti di controllare la stabilità del reticolato, 
rimasti immutati da allora, 
mi fanno riflettere.

Ci sono parti del mondo dove la storia, la vita si è fermata
e quasi si trattiene il respiro in attesa solo ... che il tempo passi, 
senza un obiettivo, senza una meta, senza alcuna certezza,
senza poter neppure immaginare quanto tempo dovrà trascorrere ancora.

L'attesa che non è attesa perché non si attende nulla ... è solo presente.

25 dicembre 2010

Sepolcro




Toglie il respiro questo silenzio
mentre fatico a posare il mio sguardo.

Diafane trasparenze
che avvolgono i miei pensieri
osservo adesso sul mio volto.

Io che sempre ho cercato pesanti tendaggi
dietro cui celarmi
da cui spiare
invisibile
il mondo.

Bastioni d' indifferenza
cingono ancora la mia fortezza.

Giustificazioni di sabbia
per lenire la mia coscienza.

E Tu
o Dio
ancora
mi concedi
la Tua attenzione.

28 dicembre 2009

Alzheimer

Imprigionati nel silenzio, tra corridoi vuoti,
si spengono lentamente,
dimenticati dal mondo,
fantasmi di precedenti esistenze.

Ci sfiorano con gesti abituali,
ricordi di un lontano passato,
parole senza pensiero,
gemiti senza apparente dolore.

Anziani-bambini scivolano nell'oblio,
ci lasciano defilandosi nelle loro nebbie.

Li guardiamo pietrificati,
ingannando noi stessi per sopravvivere.

26 settembre 2009

Football

Battiti, avverto il mio cuore, mi manca il respiro.
Secondi, un altro battito, sudore sotto il casco protettivo.
Secondi, sfugge lo sguardo, vedo gli occhi dell'avversario di fronte a me, sento il suo affanno, anch'egli è in tensione.
Sta ripassando mentalmente lo schema ... forse è nel panico, forse non lo ricorda.
Rapido guardo il suo volto a quello del Quarterback in piedi dietro di lui.
Sento la tensione, i nervi si tendono, niente saliva, apro la bocca, respiro tra i denti.
Ansia.
Profumo di rose nel naso, strano avvertirlo ... forse è l'erba.
Rumore assordante, urla del pubblico. Il mio fiato non esce... ricordo i corn flakes e il bacon stamattina, ricordo mia moglie e dopo nello spogliatoio le ultime raccomandazioni dell'allenatore.
E' il momento, lo sento, urla, sta urlando; il Quarterbeck sta ripassando lo schema, chiama i comandi.
Solo un attimo, ancora solo un attimo.
Lo vedo, mi manca l'aria, non sento il braccio, il corpo mi pesa, le protezioni mi pesano.
Chiudo gli occhi, non penso, ripasso i movimenti: finta, scatto a sinistra e poi a destra, per liberarmi dall'avversario dinanzi. Riguardo il mio avversario, mi sta fissando - suda - cerca anche lui di capire cosa farò.
Ma sono deciso. Lo fisso a mia volta, dietro di lui è il mio obiettivo, il Quarterback, il suo capitano, che lui deve proteggere.
Il pubblico urla, rumoreggia, sale la tensione, non sento più nulla solo un ronzio e il mio ansimo. Devo lanciarmi di scatto - mi ripeto - nessuna esitazione, un balzo deciso... e spingere, spingere, spingere forte, con gli occhi chiusi, senza pensare.
Ho la gola secca, un attimo e...
Partiti!
Scatto, sento il contatto con lui che mi è davanti, faccio una finta, lo afferro, lo spingo, lo sbilancio, cade.
Sono smarcato ... ho un corridoio, ansima il mio respiro, ho il cuore in gola, sento intorno i colpi dei contrasti tra i miei compagni con gli avversari.
Ma ormai ce l'ho fatta, io solo sono oltre la linea avversaria.
Vedo il mio obiettivo, il loro Quarterback ... ed ha ancora con sé la palla. Mi lancio.
Aspetta! Fermo! Non lanciarla! Pensa ancora qualche secondo, studia la posizione dei tuoi, guardali ancora. Pensa! Pensa ancora ma trattienila, trattienila, trattieni la palla ... così che ti afferri.
Attendi, aspetta! Ancora un secondo, il tempo di un balzo ... per stenderti al suolo.
Ecco...
Sei mio!


21 settembre 2009

Egon Schiele (Tulln 1890 - Vienna 1918)



Scivolano rapidi i mie passi sui selciati imperiali
sfiorando le sfarzose carrozze dell'altrui vita
mentre, in fretta, mi nascondo alla vista
di quei neri calessi
che accrescono in me
solo i dubbi.

Zoccoli di bianchi destrieri
scalpitano sulla pietra
sottraendo lenti quei maestosi palazzi
a sguardi ancor più annoiati
di passeggeri indolenti.

Ed io
dal basso
lancio occhiate a cieli di un giallo intenso
a case arancioni dai verdi infissi
intarsiate
quasi protette
dalla bianca luce dei panni stesi
che ogni volta accecano il mio sguardo interiore
soffocandomi in un mondo di colori
che solo a me appartiene.

Danzano incessanti
incrociandosi sulla candida tela
i miei occhi assetati
di coglier riflessi color rubino
sul nudo del mio autoritratto sbiadito
lasciando però che la mia anima
resti celata sotto una patina
di grigio colore.

Così l'avido desiderio
di possedere altri corpi
stravolge l'immagine della modella che ho dinanzi
contorcendola in pose grottesche
quasi animali
per me sensuali.

Luce di follia
che travolgevi la mia mente
tu sola
mi accompagnasti
donandomi sollievo
nell' ultimo sonno
spengendoti con me
insieme al mio corpo malato.

Ritratti



Giullari di sale
roteano nella stanza
sfiorando i velluti.

Maschere ambigue
mi scivolano accanto
come in una macabra danza
mentre sfuggo agli sguardi morti
ritratti sulle pareti.

Istantanee di vita
pietrificate nel ricordo
emozioni vissute
da anime ormai lontane.

Silenti spettatori del vuoto
delle nostre quotidiane risa
sorridono a loro volta
aspettando pazienti
il nostro arrivo.

17 luglio 2009

Siachen



Nel nulla, sto morendo nel nulla, nel vuoto, nel silenzio di un oceano bianco di neve e ghiaccio.
Lentamente mi spengo.
Nessuno mi troverà fino a domani.
E domani sarò morto.

Se solo riuscissi a raggiungere Ranjan.
E' lì. Lo vedo, a solo una decina di metri; morto soffocato come gli altri dalla neve ... ma lui ha il radiotrasmettitore con sé.
Se solo ce la facessi a raggiungerlo, forse potrei chiamare il campo ... potrei chiedere aiuto.

Per Shiva! Non mi muovo, non ce la faccio, le forze mi mancano.
Sono bloccato da questa massa di neve che ci ha travolti tutti, all' improvviso, come un ciclone tropicale; in un attimo, ci ha presi e spazzati via dal sentiero, trascinandoci con sé.

Un boato e davanti a me ho visto sparire inghiottiti dal bianco il Tenente Maraji, il sergente Balram e il caporale Kedar, avvolti dalla valanga, portati chissà dove, giù verso valle... verso la morte.
Solo un fiato e anch'io mi sono sentito schiacciare, sollevare, premere contro il terreno e poi portare via, rotolando per attimi, forse secondi che parevano ore ... fino a perdere i riferimenti, a perder la coscienza del sopra e del sotto, in un involucro di morte che tutto avvolgeva, in un sudario di soffocante silenzio.
Nulla più ero, catturato da madre natura ... che, come me l'aveva donata, ora mi toglieva la vita.

Ancora qualche respiro, ancora riesco a pensare, ho coscienza di me qui, bloccato dal ghiaccio, seppur incapace di muovermi col corpo del tutto sommerso, imprigionato in questa lenta morte bianca.
So che solo pochi attimi di coscienza ancora mi attendono ... e neppure riesco a piangere.

Dal comando informeranno mio padre e mia madre che sono morto con onore per difendere l'India, seppur non abbia mai sparato un solo colpo in questo deserto bianco. A chi poi lo avrei potuto sparare. Mai una volta, nei sei mesi da quando sono arrivato, ho visto i pakistani, ma solo freddo, ghiaccio e tempeste di neve. Qui, a settemila metri di altezza, su questo ghiacciaio del Siachen conteso da anni tra India e Pakistan, un piccolo lembo di Himalaya dove l'unica cosa che accomuna noi e i pakistani è di essere tutti quassù, quando moriamo, molto più vicini agli Dei delle nostre famiglie lasciate nelle calde pianure di India e Pakistan, settemila metri più in basso.

O Shiva! Ho sonno, il mio corpo si sta lentamente spegnendo.
Accoglimi grande Shiva! E fammi reincarnare in un candido airone, così che abbandoni per sempre queste vette immobili dove manca il respiro e possa volare lontano, attraversare le pianure del Rajasthan e raggiungere infine il mio villaggio, la mia casa, i miei genitori e lì nidificare sugli alberi vicini per vederli ancora una volta.





Legenda:

Siachen: ghiacciaio posto alle pendici degli "ottomila" del Karakorum situato a quasi settemila metri di altitudine conteso tra India e Pakistan, di nessuna rilevanza strategica senza alcuna materia prima. Solo ghiaccio e freddo polare. Questo ghiacciaio, per il cui dominio si stanno spendendo enormi somme di denaro e mettendo in gioco le vite di migliaia di uomini costretti a vivere a -50 °C, rientra nel più generale gioco della grande guerra tra Pakistan ed India. Da ormai vent’anni in questo piccolo lembo di Himalaya soldati musulmani e hindu muoiono. Quasi mai per le pallottole che, data l’aria estremamente rarefatta, raramente raggiungono gli obiettivi prefissati, ma quasi sempre per ipotermie, mancanze di ossigeno o valanghe.

30 aprile 2009

Ricordi



Grigia bruma autunnale, radi alberi che si infittiscono e poi di colpo, di fronte a noi, formano un bosco, avvolto anch’esso nella nebbia che, lentamente, si solleva dal suolo in una terra germanica, perennemente impregnata di umidità.

Solo elmi e scudi sulla linea del mio orizzonte ed aliti di vapore frammisti al silenzio, quello assoluto, totale, quello dei pensieri sulla morte e della ferma determinazione, quello della ferrea disciplina e dei nostri valori ancestrali sul coraggio e sull’onore.
Una lunga linea di grigio acciaio e di punte acuminate che, asimmetriche, scompaiono in lontananza.
Profili indefiniti di decine di volti, sagome quasi irreali adesso, anche se da me ben conosciute.

L’attesa …… sempre la stessa come ogni volta, da molti anni.

E l’ansia che diviene palpabile, quasi visibile, come lo scudo di Massimo che copre il mio fianco destro ed il forte braccio di Varo, con l’alto pilum, cui il mio scudo offre riparo, alla mia sinistra.

Il nemico indefinito, informe è di fronte a noi, forse mille, forse solo cento passi; ne percepiamo la presenza, oltre alla sua stessa inquietudine che nasce dal vederci fermi, risoluti… orgogliosamente sicuri della nostra superiorità e che ancora lo frena nel suo desiderio selvaggio di dare battaglia.

Spalla contro spalla, gli uni vicini agli altri, avvertiamo la stessa tensione la stessa ansia che avvolge il cuore, ma siamo determinati, un’unica entità pronta allo scontro, gli occhi fissi dinanzi a noi su sagome indistinte che, forse frutto della nostra attesa, pervadono la nebbia insieme con il nostro immaginario, mentre il comandante Marsilio, immobile, appena fuori della linea formata dai nostri scudi, scruta il limitare della radura, da dove ciascuno di noi vedrà, a momenti, apparire il proprio destino.

Lucio e la IX coprono il nostro fianco destro, non li vediamo, attraverso questa nebbia e questa luce fioca, che fagocita tutto insieme al paesaggio, ma sappiamo che sono là, schierati su quattro linee e pervasi dalla nostra stessa inquietudine.

Come Valerio con la XIV “Virtus” a centoquaranta passi da noi verso est, più al centro della pianura e certo con le lance delle prime file già abbassate in attesa dell’urto.

Il momento delle scelte, il momento dei pensieri oscuri, il momento della raccomandazioni agli Dei, il momento delle certezze, il momento della nebbia della ragione, il momento in cui si fanno risuonare incessanti nella mente le parole del centurione Cornelio, unico ricordo dei molti mesi di addestramento, tante e tante lune orsono, ricordo di un tempo così lontano, che adesso fatichiamo a crederlo veramente vissuto.

L’attesa, terribile compagna che sola ci fa progredire tutti insieme nel nostro coraggio, l’attesa in un sentire comune che ci unisce e ci fonde quasi in un’unica entità, nella quale le nostre individualità scompaiono e nella quale ci nutriamo reciprocamente, l’uno della fermezza dell’altro.

L’attesa, un breve respiro trattenuto, un movimento comandato dal nostro cervello che non viene eseguito, un pensiero percepito nel nascere e immediatamente schiacciato e soffocato con rabbia, traendo forza dal compagno che ci sta al fianco.

Improvvisa la liberazione si materializza dinanzi a noi sotto sembianze di uomini urlanti, selvaggi privi di disciplina che combattono solo spinti dall’odio, che si credono cacciatori mentre moriranno da prede, come altri prima di loro.

La Legione all’unisono si irrigidisce, i muscoli si tendono, le gambe cercano stabilità nel terreno, gli scudi, con un unico movimento, leggermente si alzano per poi contemporaneamente unirsi, quasi spezzando, nell’incastro, le lance che abbassiamo, d’un tratto, protendendole dinanzi a noi.

Ancora cento passi e distinguiamo meglio i loro volti, ancora cinquanta passi e comprendiamo chi sarà il nostro avversario, colui che dovrà morire per permetterci di vivere.

Nella fermezza di chi ci sta al fianco, nel silenzio della sua voce, nella fiducia che in lui riponiamo adesso affidiamo, ciascuno, le nostre certezze e costruiamo l’ultimo nostro rifugio; mentre la mente si ottenebra nell’oscurità della ragione, soffocata da istinti primordiali di sopravvivenza e di rabbia.

Noi che siamo gli ambasciatori della civiltà, i figli di una cultura superiore …
i legionari.

Poi l’urto, terribile, violento, previsto ma che egualmente ci sospinge, ci travolge e ci fa barcollare, mentre vediamo le ferite, il sangue, le maschere di dolore ed accanto un compagno che cade, cui non possiamo prestare soccorso, perché tutti sappiamo che dobbiamo, a costo di qualsiasi sacrificio, tenere la linea.

Il nostro scudo che protegge il compagno e i colpi che sferriamo sono l’unica preoccupazione, unita alla fiducia che lo scudo di chi ci sta a fianco egualmente stia saldo.

Sangue, membra lacerate e colpi violenti inferti, da entrambe le parti, con una ferocia di cui le stesse belve mai si sognerebbero, noi, i portatori della pace, contro loro i barbari, stupidi difensori di usanze ancestrali e costumi primitivi.

Una pressione continua, crescente, che si unisce alle urla ed al rumore assordante del metallo, mentre lo scudo si fa sempre più pesante ed il riflesso ormai connaturato del parare ed infliggere i colpi prende il sopravvento su ogni mio pensiero, su ogni mia titubanza.

Un frastuono sul quale sento chiara solo la voce del comandante, che ci urla di restare immobili e tenere la posizione, mentre Massimo crolla a terra, col cranio fracassato, lasciandomi scoperto sul fianco, ma subito sostituito da un compagno che, dalla seconda linea, avanza d’un balzo, affiancando il suo scudo al mio, chiudendo il varco.

L’orda come un’onda si infrange sempre con maggior violenza, consapevole che, se respinta, verrebbe a sua volta travolta.

Poi il crollo fulmineo ed inatteso, alcuni compagni che cadono, la linea che sbanda, l’urto che, dapprima lineare, si frantuma in mille scontri individuali, mille rivoli di combattimenti corpo a corpo, dove solo l’esperienza ed il Fato comandano, dove, mentre, alla cieca, abbatto il nemico più vicino e recido, di netto, con la daga, l’avanbraccio di un altro barbaro, confido ancora di avere, alle spalle, un compagno, piuttosto che un avversario.

Così libero senza freni il mio furore, mentre colpisco con tutta la violenza e la rabbia di cui sono capace, lottando per la vita ed odo solo il mio urlo primordiale sovrastare il rumore dei colpi.

Ma la Legione è ancora viva e presente, anche se frantumata, ancora lotta disperata per non soccombere, seppur frazionata in mille individualità selvagge.

E a questo punto è il nemico a vacillare, quasi sorpreso da quella resistenza accanita, è l’orda a cercare un elemento che la tenga unita, ora che è riuscita a frazionare quell’avversario che pareva monolitico, è l’orda che sbanda, che indietreggia mentre ancora cerca un riferimento cui aggrapparsi, esaurito il compito che si era prefissa e nello stesso istante in cui la V Legione “Felix”, dalle retrovie ed a ranghi compatti, si immerge nella mischia.
Come una macchina da guerra ben addestrata, le coorti di rinforzo penetrano in file ordinate tra le nostre file residue, frantumano le difese dell’orda e risolvono gli ultimi scontri, lacerando le carni e calpestando corpi ormai mutilati con una progressione lenta ma inesorabile, che, come d’incanto, mi sottrae lo stesso avversario che avevo dinanzi, lasciandomi, da solo, di fronte al suo corpo ora dilaniato, al centro della pianura.

La vittoria grondante di sangue dirada le ultime nebbie che filtrano un sole malato.

Tra i corpi straziati dei nemici e di volti amici ed un fetore insopportabile di sudore adesso vedo la morte sollevarsi, sazia, dal campo di battaglia, recando via con sé molte speranze e molti sogni cui ancora la stessa sera precedente, intorno ai falò, ero stato fatto partecipe e che anch’io avevo condiviso.

Colgo il corpo inerte di Settimo e più in là quello mutilato di Claudio mentre Varo, l’armatura quasi lavata nel sangue, mi si avvicina, quasi a voler di nuovo ricomporre una linea che ormai non esiste più, poi entrambi rispondiamo al richiamo del centurione della VII coorte per raggrupparci, dopo che abbiamo scorto il nostro comandante a terra, privo di vita.

E lancio un ultimo sguardo, quasi di invidia, alla Legione “Felix” che sta inseguendo i barbari nel bosco, mentre da terra raccolgo l’aquila e le insegne della XIX “Civitae” …… la mia Legione.

Cordoba

La fioca luce del tramonto si attenuava lentamente fin quasi a scomparire dalle ultime colonne sul fondo dell’immensa sala, lasciando il posto all’oscurità che, a poco a poco, avvolgeva il salone.
Solo i riflessi vermigli delle torce sulle pareti, con i loro bagliori rossastri, rischiaravano a tratti la folla dei presenti.
Amhed, inginocchiato accanto al suo maestro, ripeteva, raccolto in preghiera, la Sura, mentre questi, seduto al suo fianco avvolto nella lunga veste da cerimonia, appariva distante, con lo sguardo assorto sotto la barba canuta.
La Moschea dalle cento colonne si stendeva a perdita d’occhio intorno a loro ed alle centinaia di fedeli lì riuniti per la preghiera della sera, come se Allah, sia Benedetto il Suo nome, avesse voluto ancora una volta radunarvi lì gli eletti, per avvolgerli in un unico grande abbraccio.
All’unisono, come membra animate di un unico essere, i fedeli si alzavano ritmicamente in piedi, per poi inginocchiarsi fino a toccare con la fronte le stuoie che coprivano il pavimento della Moschea in direzione del mihrab, il vero cuore di questa, rivolto in direzione della Sacra Roccia.
La nicchia, illuminata dal fuoco delle fiaccole, che ne accentuavano i riflessi rossastri del tramonto, risplendeva di una luce magica che ne esaltava le decorazioni ed i fregi, facendo apparire lì, palpabile, la presenza dell’Onnipotente.
Una luce mistica avvolgeva poi il Sacro Libro, quasi infondendo vita alle iscrizioni fregiate d’oro mentre, a pochi metri, su una pedana leggermente sopraelevata e coperta di morbidi cuscini, il Califfo Al Mansur era inginocchiato in preghiera, circondato dagli alti dignitari di palazzo.
Poi la voce del Gran Visir si alzò improvvisa, sopra le altre, annunziando la fine della preghiera ed invitando i fedeli ad invocare la protezione di Allah, sia sempre Benedetto il Suo nome, sul Califfo Al Mansur e sulle loro vite.
Amhed lo vide allora uscire, austero ed avvolto in vesti preziose intarsiate di gemme, preceduto dalle guardie di palazzo e dal seguito dei notabili.
Al Mansur, il Califfo Omayyade, ultimo discendente del Profeta e di quella dinastia che aveva regnato nella misteriosa Baghdad tra fasti e splendori inimmaginabili, scacciata solo dal tradimento e dal bagno di sangue che aveva posto sul trono, al loro posto, la stirpe degli Abbasidi.
E mentre la folla, lentamente, alzandosi dalle stuoie, abbandonava la Moschea, Amhed notò come una piccola folla di giovani si stesse raccogliendo attorno al suo maestro, ancora assorto in preghiera, desiderosi di ascoltare, attraverso questi, le parole e gli insegnamenti del grande scienziato greco Aristotele, il cui pensiero il suo maestro così a fondo aveva esplorato nell’età della giovinezza.
Averroè, nel silenzio della piccola folla raccoltaglisi attorno, alzò allora lo sguardo verso di lui, facendogli cenno di avvicinarsi per aiutarlo a rialzarsi e accompagnarlo verso il patio esterno.
E mentre lo sorreggeva camminando insieme attraverso la selva di colonne in pietra che li circondava, Amhed ne scorse ancora lo sguardo quasi spento, come perso in un mondo irreale in cui le argomentazioni del pensiero non erano ancora riuscite a trovare una risposta agli interrogativi dell’anima.