28 aprile 2009

Videogame



Il tonfo sordo della sacca sul pavimento distolse definitivamente la sua attenzione dalle cosce della ragazza bionda che rideva parlando al tipo atletico appoggiato vicino alla porta di ingresso dell'aula di fisica e dai sorrisetti ammiccanti che i due si scambiavano e che non facevano che aumentare la sua rabbia.
Dopo averla appoggiata al suolo pensò che era stata una bella fatica portarla attraverso tutto il Campus fin lì, ma ogni macchina doveva essere lasciata nei parcheggi all'entrata e non si poteva fare eccezioni, neanche per lui e neppure in un giorno speciale come questo.
Su per le scale la cinghia quasi gli aveva segato il palmo della mano da quanto era pesante, così che per un attimo era stato dell'idea di aprirla lì ... e al diavolo tutto quanto. Ma sarebbe stato goffo e poco divertente e poi non doveva andare così.

Inginocchiatosi tirò lentamente la cerniera della sacca e ne ispezionò il contenuto, anche se l'aveva già fatto una decina di volte da ieri sera, sapendo bene cosa vi avrebbe trovato.

I due piccoli fucili mitragliatori uzi calibro 9 risplendevano sotto le luci al neon del corridoio affascinandolo, come quando due mesi prima li aveva presi in mano per la prima volta togliendoli dalla scatola portatagli a domicilio dal postino. La Beretta calibro 9 invece l'aveva già infilata nella cintura dei jeans e ne sentiva sulla pelle il freddo della canna, ma da lei non si separava più da tempo, era ormai come una seconda pelle.
Accanto ai due fucili mitragliatori uzi vide le quindici scatole di caricatori, il nastro isolante e le venti bombe a mano, queste ultime erano delle sfere nere così rotonde, liscie, regolari, come fossero state gli addobbi scelti dal Diavolo per il proprio albero di Natale.
Si tranquillizzò perché tutto era al suo posto - come immaginava - e richiuse la sacca.

Alzati gli occhi, guardò fuori sul viale attraverso la finestra accanto a lui e per un attimo seguì con lo sguardo una foglia staccarsi dal ramo di una quercia, volteggiare sempre più lentamente nell' aria, come se questa stesse scegliendo con cura dove terminare la sua corsa, per poi posarsi delicatamente ma con estrema grazia al suolo sul marciapiede sottostante, venendo però quasi subito calpestata da due studenti che correvano in fretta per raggiungere un altro padiglione del Campus.
Quegli stronzi non stanno mai attenti a dove mettono i piedi, pensò.

“Ezril!” si sentì chiamare d'improvviso alle sue spalle. Voltandosi incrociò lo sguardo di Elisabeth, la capoclasse, che stava venendo a passi decisi verso di lui con la sua minigonna ed il suo golfino attillato seguita da Bryan, il suo ragazzo, con il suo solito sorriso ebete di chi si sente superiore a tutti solo perché gioca da anni nella squadra di football della scuola.
"Anche oggi non sei venuto a lezione" gli disse con una smorfia Elisabeth fissandolo "il Prof. Whilson ha chiesto di te e ci ha detto di dirti che con questa assenza non puoi più mancare, altrimenti non ti ammetterà neppure all'esame". "Ora che fai ?” continuò “Non vieni neppure alla lezione della Kirloch in aula di chimica?".

Non gli rispose, in silenzio distolse lo sguardo e, sollevata di nuovo la sacca, si allontanò dirigendosi rapido verso la biblioteca in fondo del corridoio, lasciando lì Elisabeth ed il suo ragazzo per un attimo perplessi da quell'atteggiamento, anche perché erano curiosi di sapere come mai quel tipo timido e taciturno, ma apparentemente intelligente, da più di un mese non si fosse più visto al Campus.

Certo che ci vengo in aula di chimica a trovarvi - si disse fra sé Ezril mentre si allontanava - e vedrete poi come si noterà la mia presenza, ma non adesso. Anche voi tra poco avrete finito di dirmi cosa devo o non devo fare.

Percorrendo il corridoio ignorò anche Henry Johansonn - quel biondo “surfista” del cazzo pensò - e il suo amico Michael che anche stavolta, vedendolo, lo apostrofarono ad alta voce prendendolo in giro per il suo abbigliamento, come facevano sempre, anche per farsi notare dagli altri. Ma anche ad essi non prestò attenzione; tanto sapeva che, di lì a poco, li avrebbe incontrati di nuovo giù in sala mensa in compagnia dei loro amici.

L' appuntamento anche con loro era solo rimandato ... chissà - si chiese sorridendo tra sé - se tra una decina di minuti avrebbero ostentato entrambi tutta la loro sicurezza e giovialità.
Loro infatti erano alcuni di quelli per i quali si era riservato un trattamento speciale; con loro avrebbe usato le pallottole “dum dum”, quelle dirompenti, con le quali aveva riempito due interi caricatori, ai quali aveva fatto sopra una segno con la vernice arancione proprio per riconoscerli velocemente nella sacca.

Nulla infatti era lasciato al caso. Nulla doveva andare storto. Tanto è vero che nell'ultimo mese invece di andare a lezione quasi ogni giorno era andato nel bosco dietro casa sua ad allenarsi con le sagome di cartone, alle quali prima sparava alle gambe e poi alle braccia e quindi alla testa, come nel videogioco. Fantasticando di come, dopo una tale sequenza di colpi e prima di finirli, magari li avrebbe anche potuti vedere strisciare a lungo tutti quegli stronzi, godendosi anche stavolta lo spettacolo ... oh sì, proprio come nel videogioco.

Percorso il corridoio, arrivò dinanzi alla porta dei bagni, che era appena prima di quella della biblioteca, si soffermò, l' aprì lentamente, sbirciò all' interno per entrare quindi nella toilette più vicina. Appoggiò la sacca sul water e l'aprì, mentre sentì che qualcuno dietro di lui entrava in fretta e si chiudeva nella toilette alla sua destra.

Con calma, quasi assaporando in modo mistico i gesti, cominciò a fasciare con il nastro isolante a gruppi di due le bombe a mano, appendendole delicatamente ai ganci che aveva predisposto sulla cintura dei pantaloni, così da poterle afferrare con estrema facilità, come aveva già provato da solo a casa. Inserì un caricatore in ciascuno delle mitragliette uzi, mentre con gli altri riempì le tasche del giubbotto e dei pantaloni. Quindi, dopo aver messo il colpo in canna ad entrambi i mitragliatori e tolto la sicura alla Beretta che era già carica, li impugnò.

Era pronto finalmente. Era a un passo dall' inizio, nessuno poteva ormai più fermarlo.
Cosa sarebbe successo dopo non gli interessava, non si era nemmeno posto il problema. Magari sarebbe andato a casa, avrebbe ordinato una pizza e nell'attesa si sarebbe rivisto in tv chiuso su in soffitta per non essere disturbato neppure da sua madre, che comunque quella sera era a lavoro in ospedale ed aveva il turno fino a tardi.

Sentì che chi era entrato poco prima nella toilette alla sua destra ne stava uscendo, aspettò dei lunghi secondi che quel qualcuno si fosse avvicinato ai lavabi, che avesse aperto e richiuso l'acqua e poi spalancò con un calcio violento la porta.

Dicono che i primi ricordi di un avvenimento nuovo ed emozionante che ti accade sono sempre quelli che ti restano più a lungo in mente, una sorta di imprinting emozionale. E gli occhi a mandorla oltre all'espressione, dapprima sorpresa, poi stupefatta ed infine terrorizzata di quell' asiatico del suo compagno di corso dal nome impronunciabile, Xiu Chang Li Chen o qualche merda di nome cinese del genere, furono ciò che in effetti ricordò più a lungo dei momenti successivi.
Dimenticò infatti quasi subito la testa mezza spappolata dello stesso Xiu Cheng Li Chen e la materia cerebrale che ne usciva dopo che lo aveva colpito con due lunghe raffiche.
In cosa era bravo quel tipo? Forse in matematica gli sembrava di ricordare. Sì, era certo così, tutti gli asiatici erano bravi in matematica, magari non erano bravi a difendersi, ma nelle materie scientifiche sapevano cavarsela.
Piuttosto - riflettè preoccupato - quelle due lunghe raffiche solo su quello stronzo di Xiu era stato un inutile spreco di colpi. Uffa! Doveva restare lucido e stare più attento a non esser avventato. Doveva restare calmo e concentrato per non sprecare munizioni inutilmente come nel videogioco, se voleva divertirsi a lungo. Ma era così difficile, perché adesso tutto era così dannatamente bello e reale ...

Breitenfeld

Un sordo frastuono di zoccoli scosse d’improvviso la foresta, rimbombando fra gli alberi, e paralizzando un cervo che si abbeverava ad un ruscello poco lontano.
Più avanti, lungo il sentiero, il soldato svedese appena udì quel suono così familiare, si arrestò, imbracciò il fucile, per subito lasciare in fretta il sentiero, correndo a nascondersi fra i cespugli.
Conosceva infatti l’origine di quel rumore ed anche come la vegetazione, così scarna, non lo avrebbe mai potuto celare agli sguardi, se avesse continuato a correre tra gli alberi anche solo per pochi metri.
I dragoni comparvero, come d’incanto, sul sentiero, uscendo da dietro alcuni alberi di castagno.
Le uniformi con effigiata l’aquila imperiale, i moschetti e le lunghe sciabole legate alle selle passarono al galoppo attraverso la radura, e scomparvero alla vista così repentinamente come erano apparse.
Il soldato sorrise per lo scampato pericolo, ma sapeva che un’altra volta non avrebbe certo avuto identica fortuna.
La cavalleria imperiale era stata sguinzagliata da Tilly dappertutto, alla ricerca dell’esercito svedese, ed i due eserciti erano ormai così vicini che le rispettive avanguardie stavano ormai esplorando lo stesso territorio.
Il contatto e l’inizio dello scontro era solo questione di ore.
Gustavo Adolfo era impaziente di confrontarsi con le truppe imperiali, forse altrettanto di quanto lo fosse il vecchio generale Tilly, ma nessuno dei due voleva certo concedere all’avversario il vantaggio del terreno durante lo scontro.
Il soldato rialzatosi, decise di tornare subito indietro ad avvertire i compagni che la zona era troppo pericolosa e che sarebbe stato meglio riunirsi al resto del plotone.
Percorsi poche centinaia di metri avvertì gli spari e le urla provenire da là dove aveva lasciato gli altri e comprese, senza provare alcun rammarico, che lo scontro era cominciato in sua assenza.
Avvicinatosi si nascose dietro una grossa quercia, mentre poco più avanti scorgeva, attraverso il fumo dei moschetti e degli archibugi i suoi compagni impegnati in furiosi corpo a corpo con uno squadrone di lancieri.
Le grida, il sangue, gli spari, i colori delle uniformi e delle cavalcature si mescolavano come in un grottesco dipinto dove il quadro d’insieme perdeva valore al cospetto delle singole parti.
Mentre le sciabole si alzavano e si abbassavano con violenza, i proiettili colpivano abbattendo cavalli e trapassando le membra e le lance attraversavano i corpi, il soldato restava lì immobile, quasi ammirato di quello spettacolo dove la vita lasciava ogni attimo il posto alla morte, come in un assurdo ma affascinante balletto.
In tale stato d’animo scorse, poco distante, un lanciere imperiale che, con la spada sguainata, veniva al galoppo nella sua direzione, ma mentre imbracciava il fucile e prendeva la mira, notò come l’elmo sulla testa del lanciere quasi ondeggiasse e pensò, premendo il grilletto, che forse anche quel lanciere, lo aveva perso, come lui, in battaglia e lo aveva sostituito con un altro preso a qualche commilitone caduto.
Come trattenuta da una corda che si tende d’un tratto, la testa del lanciere ebbe un sussulto all’indietro, facendolo piombare al suolo giù da cavallo, come un sacco pesante ma informe, mentre l’elmo, troppo largo per la testa dell’uomo, rotolava via tra le foglie, intriso di sangue.
Adesso anche lui, pensò il soldato, aveva fatto apparire dal nulla, ancora una volta e per una frazione di secondo, l’Oscura Signora, che mai mostra il suo volto seppur invocata.
Un dolore lancinante e improvviso troncò però di netto i suoi pensieri, mentre una spinta violenta, facendogli cadere l’arma, lo appiattì contro l’albero che gli aveva offerto rifugio.
Capire di esser stato colpito fu tutt’uno col sentire che il respiro gli veniva a mancare ed avvertire il calore del proprio sangue sulla pelle, ma mentre moriva vide poco lontano il volto stanco e impaurito del lanciere che gli aveva appena sparato e in fondo fu felice di affidare a lui, oltre quello per la propria, anche il peso della sua di vita.


Isher è anche Wallenstein