29 aprile 2009

Sonata

Gradini, ancora gradini, i “suoi” gradini. Lentamente saliva quelle scale che conosceva fin da piccola; lì viveva con la sua famiglia dalla nascita e lì sapeva che avrebbe vissuto per il resto della sua vita perché quel palazzo, chiamato Casa Pasqualati, era la sua casa.

Arrivata al quarto piano si fermò davanti alla porta e picchiò forte sul battente. Colpi forti, violenti e ripetuti, a sovrastare la melodia che aveva sentito fin dal primo piano mentre saliva e che adesso, lì sul pianerottolo, si avvertiva distintamente provenire dall’interno dell’appartamento.

Il Maestro come al solito non rispondeva; come accadeva tutte le volte che sia la cameriera che il suo segretario non c’erano. Brigitte la cameriera le aveva detto mezz’ora prima che sarebbe andata al mercato rionale, mentre il segretario l’aveva visto incamminarsi di buon mattino verso l’Hofburg dove si recava quasi ogni giorno.

Che strano uomo il Maestro - pensò tra sé mentre nuovamente picchiava con forza il battente contro la porta - certo assai bravo, ma alle volte così scontroso ed assente; forse a causa della sordità.

“Maestro, la carrozza è arrivata” annunciò urlando a gran voce attraverso la porta e continuando a percuoterla.

Dall’interno la musica si interruppe d’un tratto, sostituita da un improvviso silenzio e poi da un fruscio lontano quasi impercettibile per chiunque, ma non per i suoi orecchi abituati a cogliere ogni minimo rumore, soprattutto se proveniva dall’interno del palazzo.

Rimase lì ferma sul pianerottolo in attesa, fissando la porta ancora chiusa; con l’orecchio attento a cogliere ogni più minimo rumore che provenisse dall’interno. In fin dei conti ascoltare facendo finta di nulla faceva parte del suo lavoro di portierato; ascoltare, osservare ed annotare mentalmente ogni movimento di tutti, di chi entrava, di chi usciva e ricordarsi anche le visite che ognuno riceveva, per essere sempre informata ed anche, alla bisogna, per informare chi di dovere.
E quest’uomo così celebre venendo ad abitare lì aveva alterato la vita di tutto il palazzo, aveva aumentato il via vai. Certo un via vai di persone importanti, ma quanto lavoro in più era arrivato per lei. Adesso, quasi ogni giorno, doveva pulire il cortile antistante, lavare l’androne, spolverare il portone d’accesso e lucidarlo, mentre prima - almeno da quanto le aveva sempre detto sua madre – queste incombenze si rendevano necessarie, al massimo, ogni due o tre settimane. Insomma, da quando il Maestro era venuto ad abitare lì, oltre sei anni prima, tutto il lavoro era aumentato. Poi, come se non bastasse tutti, ma proprio tutti, dai vicini sino alle cameriere e perfino i vetturini o anche semplici passanti, la interpellavano volendo sapere del grande compositore, cosa faceva, chi incontrava, cosa mangiava, come si vestiva, se suonava sino a tarda notte … una vera scocciatura; non era mai lasciata un minuto in pace nella sua guardiola. Certo molti ospiti del Maestro - soprattutto le Signore - le lasciavano mance generose quando lei si occupava di cercargli le carrozze in particolare a tarda sera, ma onestamente ne avrebbe fatto anche a meno, perché per ogni carrozza che arrivava e partiva c’era sempre più sporcizia da togliere nel cortile ed anche dentro l’androne; soprattutto quella assai puzzolente lasciata dai cavalli. E poi, come se non bastasse, d’estate doveva tenere ben umido il selciato antistante l’entrata del palazzo e d’inverno spazzare la neve non solo dinanzi al portone – come gli aveva insegnato sua madre – ma su tutto il piazzale là dove sostavano le carrozze a doppio tiro in attesa degli ospiti del Maestro, arrivando a pulire fin quasi davanti all’entrata del palazzo accanto; perché il vecchio Gerd - che lì faceva il portiere - non ne voleva proprio sapere di andare a pulire oltre l’androne antistante la sua guardiola. Toccava quindi a lei curare che tutto fosse in ordine. Ne andava del buon nome del palazzo e soprattutto di lei e della sua famiglia.

La porta che si apriva lentamente la ridestò da quei pensieri e – come sempre – sfoggiò il suo miglior sorriso di circostanza mentre il Maestro apparve sulla soglia dell’appartamento con lo sguardo un po’ assente.

“La carrozza è arrivata ed è davanti al portone Maestro, sono venuta ad informarla” disse scandendo bene le parole ed a voce alta.

Lui annuì. Aveva capito, pensò lei tra sé.

“Quando vuole può scendere. Ha bisogno di qualcosa?” gli chiese, sapendo che non avrebbe ricevuto, come sempre, alcuna risposta.

Lui, abbozzando un mezzo sorriso, annuì. Almeno aveva compreso si disse lei.

Sul fondo dell’appartamento dietro le spalle del Maestro intravide il salotto ed il pianoforte a coda con gli spartiti sparsi qua e là per la stanza. Una confusione che lei non poteva tollerare in casa sua, ma d'altronde sapeva che i compositori erano tutti, senza eccezione, disordinati. Glielo aveva riferito anche la sua amica Gertrude che frequentava lo stesso fornaio vicino al Naschmarkt dove andava la portiera di quel tal Schubert.

Salutò con garbo il Maestro e si girò per tornare in fretta giù, quando d’improvviso sentì la voce di lui che la interpellava: “Mi scusi signorina…”
“Si” rispose guardandolo anche un po’ stupita, perché raramente le aveva rivolto la parola a causa della sordità che lo rendeva schivo ed introverso.
“Posso chiederle il suo nome?” le disse.
“Elisa, Signor Beethoven, Elisa Steiner … per servirla” - rispose - accennando un breve inchino.
“La ringrazio molto... Elisa … E’ proprio un bel nome – mormorò tra sé il Maestro – delicato e soprattutto musicale … Sì! E’ perfetto.”

“La ringrazio - continuò lui - dica al cocchiere in strada che arrivo subito. Adesso ho davvero finito.”
“Sa talvolta - riprese - un nome è quanto di più difficile ci sia da trovare.”
Ed in fretta si girò e rientrò nell’appartamento lasciando la porta aperta.

Lei lo vide che raggiungeva il pianoforte ed annotava qualcosa, un breve appunto, sullo spartito.

“Che tipo!” mormorò tra sé mentre scendeva le scale “sono più di sei anni che vive qui e solo ora chiede il mio nome.”

Uscita dal portone disse al cocchiere che il Maestro sarebbe arrivato subito e quindi si mise a spazzare l’androne con l’abituale misurata lentezza, simile ad un animale che delimita e controlla il proprio territorio.

Poco dopo lui arrivò, attraversò in fretta l’androne e senza nemmeno degnarla di un saluto salì sulla carrozza che partì subito in direzione dell’Hofburg.
Sotto braccio notò che aveva con sé una cartellina da cui sporgevano alcuni spartiti, quasi certamente quelli che aveva notato poco prima dentro l’appartamento.
Quei fogli bianchi da cui certo uscivano, a volte, melodie molto belle e che in molti suscitavano grandissima ammirazione, ma che a lei non erano mai interessate molto.
Quella musica le sembrava infatti troppo raffinata; era il tipo di musica nella quale si dilettavano i ricchi, sua Maestà e quasi l’intera aristocrazia perché non avevano altro da fare - pensava - mentre a lei non avrebbe mai dato da vivere.

Little killer



Ho sempre pensato che per parlare di me dovessi essere interrogato.
Senza una domanda non ho mai sentito il desiderio di farlo, però la dottoressa ha insistito, dicendomi che mi sarei sentito meglio, ma io sto già bene.

Pensavo solo a sparare. Questo mi avevano insegnato a fare e questo facevo, anche bene. Gli altri non avevano un volto, se per volto – come mi ha spiegato la dottoressa - si intende un viso cui attribuiamo un’espressione e dei sentimenti simili ai nostri.
Quello che avevano era solo una faccia su un corpo animato, un’immagine che tante volte quando mi si presentava dinanzi nella mia mente provocava come prima reazione quella di premere il grilletto; sapete, l’Ak47 – perché così si chiama, me lo ha detto il Sergente - è facile da usare basta solo sfiorarlo e lui centra quasi da solo il bersaglio, è sufficiente puntarlo dinanzi a sé.
A dire il vero il Sergente la prima volta che lo usai mi schiaffeggiò - come faceva mia madre - dicendomi che lo tenevo male, storto, troppo verso sinistra.
Aveva ragione, infatti quel maledetto vecchio che cercava di scappare non lo avevo ucciso subito al primo colpo. Avevo sparato sì, ma la raffica mi era sfuggita verso sinistra e quel vecchio, pur colpito alla schiena, continuava ad allontanarsi barcollando sulle gambe ed io avevo già sprecato quasi mezzo caricatore. Mi ricordo solo che dovetti rincorrerlo fin quasi al limitare della foresta per finirlo con una raffica alla testa ed il fucile mi pesava così tanto, mentre dietro il Sergente continuava ad urlare e sentivo anche gli altri che mi prendevano in giro ridendo, chiamandomi “cucciolo di antilope”; ma erano più bravi solo perché erano più grandi di me.
Imparai presto però, o sì che imparai. Solo tre settimane dopo quando ce ne andammo dal villaggio di Bisango ormai mi rispettavano.
Ero stato bravo. Mi ero proprio piaciuto; due, ben due insieme con una stessa raffica ed uno di loro aveva anche in mano un macete.
Dopo il villaggio di Bisango anche il Sergente era contento di me, mi chiamava pure “little killer” ma non perché avevo colpito quei due ma perché un’altra volta in un altro villaggio, mentre stavamo per andarcene, avevo scovato quella donna minuta ed il suo bambino nascosti in una buca usata per i bisogni sotto il pavimento della capanna. Era uno spazio angusto cui si poteva accedere solo passando da fuori e strisciando sotto la capanna. Gli altri non c’erano entrati, non volevano sporcarsi. Io invece ci passavo e non avevo paura di sporcarmi ed avevo capito subito che qualcuno avrebbe potuto rifugiarsi lì sotto; anche nel mio villaggio quando giocavo con Nascua mi nascondevo spesso sotto la capanna vicino al letame perché sapevo che, a causa della puzza, nessuno veniva mai a cercarmi lì ed io non avevo svelato a nessuno questo mio nascondiglio segreto. E così li avevo trovati entrambi.

Ero orgoglioso del mio Ak47.
Quando quei bianchi me lo presero piansi, ma io e gli altri due eravamo rimasti soli.
Eravamo inseguiti ed il Sergente era andato troppo avanti con gli altri e noi tre non riuscivamo a tenere il passo, le armi pesavano troppo e nella foresta si impigliavano dappertutto; ma non potevamo lasciarle, il Sergente ci avrebbe picchiato come faceva sempre e deriso davanti a tutti.
Quando calò la notte ci fermammo. Eravamo stanchi. Ialud cominciò a piangere in silenzio, come faceva tutte le notti perché aveva paura del buio, io invece non lo temevo; mi addormentavo masticando le erbe che ci dava il Sergente e facevo sempre sogni strani che non ricordavo mai ed al mattino mi svegliavo sempre tutto sudato.

Quando ci svegliammo capì che quelli che ci inseguivano erano passati oltre. Allora dissi agli altri che forse avremmo dovuto tornare verso il sentiero, così il Sergente ci avrebbe trovato; perché certo sarebbe tornato indietro a cercarci.
Nessuno di noi sapeva in quale altro posto andare.
Io non ricordavo neanche il volto di mia madre. L’ultima volta che l’avevo vista stava andando al pozzo portando con sé mia sorella Musiac e mi disse di aspettarla lì davanti alla capanna e di non muovermi. Io non mi sono più mosso, ma lei non è più tornata. Sono invece arrivati quegli uomini al villaggio e mi ricordo solo che piangevo e la faccia del Sergente che mi afferrava per un braccio e mi sollevava, mentre sentivo colpi e urli dovunque ed avevo tanta paura.

Io e gli altri camminammo un altro giorno nella foresta, ma non incontrammo il Sergente. Arrivammo invece vicino a una strada dove c’era tanta gente – una fila interminabile – tutti che camminavano portando qualcosa con sé.

Avevamo tanta fame e tremavamo tutti, senza il Sergente nessuno di noi aveva le erbe che lui ci dava, che quando masticavamo ci facevano rilassare e non sentire la fame.

Quei bianchi, due uomini e una donna, apparvero come dal nulla; scesero da una jeep e si avvicinarono a noi. Io e gli altri rimanemmo come imbambolati a guardarli, non avevamo mai visto una pelle così chiara. Non erano armati. Ci dettero del pane.
Gli altri lasciarono subito cadere a terra le armi; anch’io per poter mangiare lasciai andare il mio Ak47 e quella donna bianca lo prese subito. Io l’avrei rivoluto indietro e nonostante tremassi tutto la pregai, le urlai di rendermelo e che se non lo avesse fatto il Sergente, come altre volte era accaduto, mi avrebbe picchiato perché lo avevo lasciato in mano di altri, ma lei, come mia madre che mi tolse per sempre il bastone con cui giocavo perché avevo colpito mia sorella Musiac, non me lo restituì e anzi lo mise sul tetto della jeep dove non arrivavo anche perché ero troppo debole per arrampicarmi e allora … mi misi a piangere.

Lisbona

I passi sempre più veloci ed il respiro affannoso risuonavano nel vicolo, mentre l’ombra scivolava furtiva, rasente i muri, passando da una zona oscura all’altra e sfuggendo alla fievole luce delle poche lanterne.
L’uomo, voltandosi continuamente indietro, fissava ansioso l’entrata del vicolo per poi fermarsi improvvisamente in un androne, in assoluto silenzio, così da poter percepire un eventuale rumore di passi diversi dai suoi.
La paura e l’ansia lo avevano aggredito subito, fin all’uscita dalla locanda, dopo l’incontro con l’emissario del Duca de Andrade.
Era stato scoperto; ed il Conte di Guimaraes in persona aveva ordinato ai suoi uomini di eliminarlo quella notte stessa, così l’indomani la sua testa sarebbe stata presentata al re e poi da questi allo stesso Duca de Andrade, ambasciatore del re di Spagna a Lisbona, con le proteste ufficiali per l’ennesimo atto di spionaggio perpetrato a Corte da Filippo II.
Il gioco delle parti tra i regnanti richiedeva infatti queste messinscene teatrali, sorrisi e bonaria ironia nei rapporti ufficiali con i rispettivi ambasciatori, ai quali facevano da contraltare crudeli e sanguinarie ritorsioni, in un gioco delle parti degno di due primedonne bizzose, se non fosse stato tutto svolto sulla pelle dei propri cortigiani.
Altre volte aveva assistito a questi grotteschi spettacoli, che invero stimolavano e solleticavano le perverse fantasie della nobiltà presente a Corte, ma adesso, che la sua stessa vita era in gioco, ne provava tutto il terrore che prima aveva scorto solo nei volti di altri.
Da alcuni mesi anche lui passava informazioni alla Corte di Filippo II, e tramite il Duca de Andrade inviava all’El Escorial informazioni riservate sui convogli in partenza per le Indie, sulla consistenza delle guarnigioni delle piazzeforti portoghesi poste in Algarve e lungo la frontiera con l’Andalusia, e persino sulla dislocazione delle batterie di cannoni ubicate, sulle due rive del Tago, a difesa della stessa Lisbona.
Tutto era cominciato quasi per gioco, allorchè circa un anno prima, durante una festa a Corte, era stato avvicinato da una delle figlie del Duca de Andrade, che dopo alcune settimane di frequentazione diurna e notturna, gli aveva esplicitamente chiesto di passarle quelle informazioni in cambio della sua condiscendenza e di non poca moneta sonante.
Erano quelli i tempi in cui il Re di Spagna era giunto nella determinazione di annettersi a qualsiasi costo il Regno del Portogallo e tutti i suoi possedimenti d’oltremare in Asia e nelle Americhe, così da poter poi rivolgere ogni sua attenzione all’Inghilterra e alle Province Unite ribelli; e per far questo era disposto a ricorrere ad ogni mezzo, per raccogliere tutte quelle informazioni vitali, sui punti deboli del Regno di Sua Maestà Don Sebastiao di Portogallo.
E così lui, Luis de Angel Riberio, secondogenito del Conte di Cascais, fino ad allora annoiato e sfaccendato giovane rampollo di quella nobiltà melliflua e corrotta, aveva deciso di entrare nel gioco, non certo per i soldi o per le grazie della bella Beatriz de Andrade, ma piuttosto per dimostrare a se stesso ed a suo padre che anche lui aveva le capacità di intessere intrighi e di sfuggire alle noiose consuetudini di Corte.
Un rumore in fondo alla strada lo riportò d’improvviso alla realtà della fuga.
Tacque, cercando di afferrare attraverso il silenzio e l’oscurità qualche indicazione che lo aiutasse a capire se era seguito o addirittura già scoperto.
Delle voci, appena percettibili si avvertivano nel vicolo, e subito dopo gli sembrò di vedere delle ombre, come sagome indistinte, nella zona avvolta nell’oscurità da cui era passato pochi istanti prima.
Erano certamente i sicari del Duca de Guimaraes che venivano a guadagnarsi la ricompensa promessagli dal loro Signore.
Era in trappola, e non aveva alcun modo di sfuggirgli per raggiungere il battello, messogli a disposizione dallo stesso Duca de Andrade ed ancorato poco distante dalla Praça do Comércio, dove, poi, nascosto tra le balle di tessuto e le stoffe grezze dirette a Valencia, sarebbe riuscito a sfuggire in Spagna.
Stringendo con forza il calcio della pistola, che mai prima di allora aveva usato, la estrasse dalla fodera del mantello, trattenendo il respiro, pronto a sparare nell’ombra alla sua stessa paura.
Una sagoma indistinta d’improvviso scivolò fuori dall’oscurità e si avvicinò silenziosamente, con passi decisi, nella direzione del suo nascondiglio.
Evidentemente, pensò Luis, il sicario non lo aveva visto e pensando che avesse già lasciato il vicolo si affrettava verso l’altra uscita posta in direzione dell’Alfama, per inseguirlo.
Il profilo dell’uomo diveniva sempre più nitido, così come ben visibile era ora il lungo coltello che questi portava in mano.
Il colpo risuonò sordo ed improvviso, squarciando con una fiammata violacea le tenebre.
Luis vide l’uomo accasciarsi senza un grido, mentre già correva verso l’uscita del vicolo, sperando che gli altri sicari non fossero nelle vicinanze.
Corse a perdifiato lungo la Rua de S. Tiago, senza mai voltarsi, mentre in lontananza sentiva voci concitate, urla e rumori di passi.
Di lì a poco sarebbe giunto nella Praça do Comércio e avrebbe raggiunto la spalletta del molo e l’imbarcadero, nel punto esatto dove l’emissario del Duca gli aveva detto che una barca sarebbe stato ad attenderlo, per condurlo a bordo del battello ancorato in rada.
Il colpo lo raggiunse alla schiena quando era quasi all’angolo con la piazza, sentì le gambe mancargli e rotolò a terra, mentre un dolore improvviso lo coglieva alle spalle.
Girandosi vide sopraggiungere due soldati della milizia, uno dei quali teneva ancora in mano l’archibugio che ancora fumava per il colpo appena esploso e capì che forse questi avevano creduto di sparare al responsabile di un omicidio appena commesso nel malfamato quartiere dell’Alfama e non ad un nobile, figlio di un grande del Regno, quale lui era.
Morì sorridendo, pensando all’ilarità che in seguito avrebbe sollevato a Corte aver visto risaltare dal piatto, con sopra la sua testa mozzata, piuttosto che i riccioli corvini, i suoi orecchi a sventola, tratto ereditario ed indelebile di tutti i figli maschi della sua casata.